Censis, “La società impersonale”


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I numeri che non spiegano

Quando di troppi dati si può morire n

di Rita Piccolini
(rita.piccolini@rai.it)

Nuovo incontro nella sede romana del Censis nell’ambito dell’iniziativa “Un mese di sociale”, l’appuntamento di metà anno per discutere e approfondire i temi della società italiana. L’argomento è ghiotto e più che mai attuale, perché affronta il problema della valanga di dati che ci piovono addosso quotidianamente e che il più delle volte sono solo ”un mare di numeri senza interpretazione”. Dati che non spiegano e a cui non si tenta di dare risposte. Numeri quasi sempre catastrofici sulla crisi economica che annichiliscono il lettore in un crescendo di ansie apocalittiche. Dati che descrivono e non interpretano.

Che siamo tutti giornalmente esposti a una valanga non controllata di numeri è una certezza. Sondaggi a tutto spiano, misurazioni, rating, indicatori di agenzie internazionali che fanno notizia e rischiano di disorientare famiglie, imprese e lavoratori. Dati che più che aiutare ad affrontare le difficoltà del presente terrorizzano. E la richiesta di sempre ulteriori informazioni sui numeri, ritenuti oggettivi e per questo simboli essi stessi di trasparenza, continua a crescere a dismisura e si allarga a macchia d’olio soprattutto attraverso il web. Ma, osserva il professor De Rita: “Sapere non è necessariamente conoscere”. Servono analisi, approfondimenti, delucidazioni, spiegazioni, risposte, soluzioni. A volte invece il dato puro e semplice fa notizia, titolo, sensazione e, amplificato attraverso Internet, dove ognuno legittimamente ne fa l’uso che vuole, può fare l’effetto contrario di quello per cui era stato diffuso:disinforma.

E’ un bombardamento continuo. “I dati aumentano e diminuisce la coscienza collettiva” spiega De Rita. Si galleggia tra i numeri che diventano un valore assoluto, ma tali non sono se non vengono accompagnati da una riflessione. Siamo ubriacati di dati dei quali per sfinimento non terremo più conto. Esagera il presidente del Censis? Proviamo a rispondere proprio con i numeri, quelli relativi ai sondaggi ad esempio. Considerando solo quelli comunicati all’Agcom, che non sono ovviamente tutti, in Italia vengono diffusi i risultati di oltre 400 sondaggi all’anno, in media più di uno al giorno. Gli argomenti sono i più vari: si va da quelli politici alle opinioni sull’opportunità di tenere aperte o meno le attività commerciali la domenica, o sulle attività culturali in tempo di crisi, o su ferie sì o ferie no, e così all’infinito. Tutto corredato da tabelle, nell’illusione di documentare quello che accade. Ma si tratta solo di descrizioni parziali, non in grado di interpretare i fenomeni sociali nella loro complessità. E’ così che il contesto in cui viviamo diventa “un paesaggio impersonale”.

Questo sovrabbondanza di dati vale ovviamente e a maggior ragione per la descrizione della situazione economica complicata in cui viviamo. Nelle prime 22 settimane di quest’anno l’Istat ha pubblicato 95 indagini. Gli accessi al sito del più importante Istituto statistico italiano per scaricare i dati sono aumentati negli ultimi sette anni del 160%. Questo è un fatto positivo di per sé, a condizione che i dati siano opportunamente interpretati. A questi si aggiungono le stime elaborate dai tanti istituti che producono numeri a getto continuo: il Fondo monetario internazionale;l’Ocse;la Bce; L’Eurostat; la Banca d’Italia, il sistema delle Camere di commercio, solo per citarne alcuni. Poi ancora gli “open data” messi a disposizione dalle amministrazioni pubbliche. Dati aperti che hanno generato al momento 156 app a disposizione degli utenti.

E in questo mare di dati l’indice del clima di fiducia degli italiani misurato mensilmente dall’Istat continua a scendere. E come potrebbe essere altrimenti?
Il Pil continua a calare. L’Ocse ha proceduto a maggio a una revisione delle stime portando le previsioni dal -1,5% al -1,8%. Registriamo il dato:è negativo. Alcuni giornali mettono on line addirittura un “contatore della crisi” da cui apprendiamo che nelle prime 20 settimane dell’anno sono fallite 6.433 imprese, 321 a settimana. Sembra quasi che ci sia, leggiamo nel rapporto, “un primato dell’annuncio rispetto all’interpretazione, al voler indagare le cause profonde delle difficoltà economiche che il Paese attraversa e magari, ad individuare soluzioni percorribili per cambiare lo status quo”. Tutti questi numeri utili e importanti ci piovono addosso senza filtri. Sul web vengono amplificati, perché Internet non è solo un veicolo, ma crea a sua volta informazione. Ogni minuto su Google vengono effettuate 2 milioni di ricerche. Ogni minuto vengono inviati oltre 100.000 tweet e compiute oltre 2.200.000 azioni su Facebook. Siamo sempre più informati e sempre più oggetto di studio sulle nostre abitudini e soprattutto sui nostri consumi. Di economia sappiamo tutto, della crisi quasi nulla, osserva nel suo intervento Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia Tor Vergata, che spiega come i dati debbano essere letti nella loro evoluzione.

La domanda è: questa bulimia di dati, che sono certamente una risorsa, consentiranno un effettivo discernimento della realtà? “La verità attraverso i numeri – viene ricordato nel rapporto- può avere molti volti a seconda di come le statistiche vengono lette e comunicate”.