A quattro anni dal terremoto in Abruzzo


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L’Aquila, ‘la bella dormiente’

Foto e appunti dalla città, fermata dal sisma aquila_bella_dormiente_296

di Emanuela Gialli

Quando si arriva da Teramo, lungo l’autostrada, se si alza lo sguardo sopra la volta di ingresso del traforo del Gran Sasso, sembra quasi di toccare la roccia del Massiccio, le sue linee aspre e nel contempo sinuose che ispirarono a tal punto Gabriele D’Annunzio da spingerlo a vedere in esse una donna, sdraiata che dorme: “la bella dormiente”. Il profilo del suo corpo e del volto, il Corno Grande e il Corno Piccolo, circondato dai capelli, i pendii che degradano verso la valle.

Così è L’Aquila. A quattro anni dal sisma, la città respira ma non vive: è un fermo immagine che provoca dolore e attesa. In tutti.

Questo 6 aprile coincide con la prima, vera giornata di sole dall’inizio dell’anno. L’Aquila, si sa, risponde bene alla primavera. Le cime innevate che la circondano fanno da contrasto al cielo di un celeste profondo. E l’aria, quell’aria fresca che qui chiamano “strinella”, trasporta profumi e vibrazioni di suono: il silenzio.

Ecco, il silenzio è una delle parole-chiave per descrivere L’Aquila di oggi. Le altre sono “gru”, “rotonda stradale”, “new town”.

A Piazza d’Armi c’è un cantiere di lavoro grande, che cambierà la viabilità nella zona a ridosso delle “Antiche Mura”, crollate in parte con il terremoto. Il Comune sul cartello che segnala i lavori in corso ha scritto “Scusate per il disagio”, quasi a scusarsi per un ulteriore disagio, che si aggiunge a quello sociale, culturale, emotivo. Economico.

E’ la giornata delle commemorazioni, il 6 aprile. A Piazza Duomo campeggiano i pullman della Rai per le dirette tv e le interviste con gli amministratori locali. C’è Massimo Cialente, sindaco prima e dopo il sisma, in attesa del collegamento. Più in là, alcuni gazebo di legno: piccoli punti vendita per i pochi turisti che vengono a visitare più che la città, le sue rovine. Nei mesi successivi al sisma questi particolari turisti erano molti di più, ora l’attenzione sembra diminuita. Ma qualcuno arriva sempre. Qualche albergo è aperto.

Su Corso Vittorio Emanuele, la strada dei Portici, anche un ristorante. Sotto quegli splendidi archi, il governo ha installato dei manifesti per ognuno dei 38 progetti di ricostruzione avviati dallo Stato, con il contributo del Cipe, o da Fondazioni o da altri Paesi europei, come la Francia. Uno è finanziato dal governo kazako.

Dai Quattro Cantoni fino alla Fontana Luminosa e al Castello, il Corso è chiuso. Ma si possono percorrere alcune vie laterali. I passi risuonano. Pezzi di vita comune si affacciano a ogni scorcio. C’è un orologio fermo alle 2 e 46: forse quella notte andava indietro. C’è un bar con il cancello semidivelto e dietro i vetri della porta si vedono travi e scaffalature cadute. Fuori però l’insegna luminosa è accessa e indica “aperto”. E’ un’insegna multicolore.

Ponteggi ovunque. Macerie, in parte catalogate in cassette classificatrici, che stanno a indicare il lavoro minuzioso svolto finora dagli archeologi delle Sovrintendenze. Ma molto resta da fare.

Si cammina, da soli. Ci si guarda dietro. Nei vicoli nessuno si inoltra. Solo chi conosce almeno un po’ la città e che, anche se non vi è nato, l’ama. Perché è bella, elegante e racconta la storia.

Parla di sé. A Piazza delle Grazie, alle spalle del Corso, vi sono due strade laterali che scendono verso il basso. Il chiarore arriva dalla valle in fondo e dalla neve delle montagne. I piccioni si fanno sentire e ingigantiscono il richiamo. Perché, ci si chiede, perché sembra che nulla si muova?

Perché in realtà poco si muove. I 38 progetti non bastano. I preziosi edifici che disegnano la pianta della città hanno bisogno di cure immediate.

A Piazza Sallustio su una scatola ricoperta da un cellophane nero c’è una scritta che all’incirca recita così: “Zona debambinizzata. Qui i bambini sono pregati di non giocare per non turbare l’aura di dramma che vi si respira”.

Dal Corso a Via XX Settembre. Davanti alla Casa dello Studente, nella aiuola spartiacque, una corona di alloro, foto, fiori. Una donna percuote un Gong, lo fa vibrare con colpi ora appena sfiorati, ora incisivi o conclusivi. Poi si siede e incrocia le gambe. Si chiama Daniela. Sta richiamando l’attenzione verso quei ragazzi studenti morti? “No, è solo un messaggio. Non voglio richiamare l’attenzione di nessuno” . Vuole ricordare una persona cara? “No, io non ho perso nessuno. Ma in realtà tutti quanti abbiamo perso quelle 309 persone”. Sul Gong c’è il simbolo di Saturno. “Sì, con la croce tendente verso l’alto, per portare l’attenzione ascensionale verso l’alto”.

Il giorno del ricordo anche quest’anno si avvia verso la conclusione. Gli operai del Comune si apprestano a chiudere di nuovo al traffico via XX Settembre. Posizionano le transenne, mentre oltre quella barriera reale e ideale una nuova città si anima: la città dei negozi sistemati in alloggi temporanei, dei centri commerciali, delle “New town” e delle “rotonde stradali”, dove gli automobilisti si incontrano e si sorridono perché inevitabilmente dimenticano la regola della precedenza.

Si vive, ancora storditi, fuori da quello spettacolare centro storico de L’Aquila, culla di idee e pensieri, incontri e attività, scambi e confronti. Il ritrovarsi di una comunità che manca e che con la sua mancanza fa vacillare l’equilibrio sociale di un intero Paese.

Il sole scende dietro le montagne. “La bella dormiente” continua a sognare il suo risveglio.