Avrebbe dovuto rompere il tradizionale rapporto di diffidenza tra fisco e contribuente, inaugurando l'era della reciproca lealtà. Un obiettivo che non sembra essere stato raggiunto, almeno a giudicare dai numeri dell'evasione fiscale.
Ma sessant'anni fa, quando per la prima volta gli italiani si sono trovati alle prese con la dichiarazione dei redditi, al ministro delle Finanze Ezio Vanoni (di Sondrio, come il suo successore Giulio Tremonti) l'idea era sembrata buona, una soluzione agli squilibri che avevano fin lì caratterizzato un sistema tributario basato sulle imposte indirette, penalizzanti per i ceti meno abbienti.
La legge del 1951, che porta il nome del suo ideatore, non a caso si chiamava 'di perequazione tributaria', a sottolineare quale fosse l'intento che aveva mosso Vanoni nel suo impegno di riforma. L'obiettivo di fondo era quello di offrire ai cittadini un'amministrazione giusta, perché ciascuno potesse contribuire alla spesa pubblica secondo le proprie possibilità e perché chi aveva di più contribuisse in misura maggiore al gettito fiscale.
L'elemento più innovativo di quella riforma, che portava con sé l'obbligo di 'confessione' al fisco dei propri redditi, con cadenza annuale, era proprio la dichiarazione dei redditi, in linea con l'idea di giustizia sociale che ispirava la politica fiscale di Vanoni.
Prima del 1951, il gettito delle imposte dirette rappresentava appena un quarto delle entrate fiscali. Un difetto da correggere, secondo Vanoni, perché un sistema tributario è tanto piu' favorevole alle persone meno abbienti quanto maggiore è la parte delle imposte dirette, il cui peso cresce con il crescere del reddito. Le imposte indirette sui consumi, invece, gravano maggiormente sui redditi più bassi.
Una situazione che contrastava con l'articolo 53 della Costituzione, secondo cui 'tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della loro capacità contributiva'. Il sistema tributario, insomma, andava modificato perché l'imposizione indiretta penalizzava i più poveri e perché la reazione dei contribuenti si concretizzava in una gigantesca evasione che era di fatto impossibile sanzionare.
La riforma tributaria introdusse la dichiarazione annuale obbligatoria per tutte le persone fisiche e giuridiche come unica base di accertamento dell'imponibile, con un metodo diverso da quello precedente. Si voleva ristabilire un rapporto di fiducia tra contribuente e fisco, anche perché era a quest'ultimo che spettava l'onere di provare la veridicità della dichiarazione.
Per Vanoni, l'interesse dell'amministrazione tributaria non doveva essere quello di realizzare il proprio vantaggio ad ogni costo, bensì quello di garantire ed attuare un diritto. Per questo, l'esponente democristiano volle chiamare questa legge 'di perequazione tributaria', perché perequare voleva dire, in buona sostanza, far pagare di più a chi aveva di più, dando la sensazione ai cittadini che l'amministrazione e' giusta e che può dispensare giustizia sul fronte del contributo alla spesa pubblica.
Ma se la dichiarazione annuale obbligatoria dei redditi rappresenta il fiore all'occhiello della legge Vanoni, questo strumento non era regolato esclusivamente dalla legge del 1951. Le norme entrate in vigore sessant'anni fa, infatti, richiamavano l'articolo 1 di un Decreto luogotenenziale del 1945, abrogato però da alcuni articoli della stessa legge Vanoni.
La nuova legge, insomma, prese spunto proprio da quel decreto di 16 anni prima che però non era mai entrato in vigore perché la sua attuazione era subordinata all'emanazione di un decreto ministeriale che si ritenne sempre opportuno rinviare.