La Primavera araba “è un movimento completamente politico e le Nazioni Unite sono intervenute dopo che sono stati uccisi duemila civili”, al commento di Daniel Reisner, si accoda Mark A. Heller, ricercatore e analista dell’Istituto nazionale degli studi sulla sicurezza. “Ci sono voluti 150 anni all’Europa per creare delle democrazie. Assad non è Mubarak. In Egitto c’è un passato democratico, mentre in Siria non c’è tradizione democratica e sono bassissime le ipotesi di un finale felice. In Libia non sarà veloce e non sarà una guerra pulita. Prima che le rivoluzioni portino a un risultato pacifico si vivranno enormi sofferenze. La Primavera araba non ha alcuna ripercussione su Israele dal punto di vista della sicurezza”.
Ma sul processo di pace sembra che non si raggiunga mai una soluzione. “In Israele, non c’è alcun processo di pace”, dice Shlomo Brom, ricercatore e Direttore del programma sulle relazioni israelo-palestinesi all’Istituto nazionale degli studi sulla sicurezza. “Il processo di pace è a un punto morto. Non è la pace il nocciolo della questione bensì le condizioni. Il governo israeliano non è interessato a ulteriori concessioni, non è interessato a negoziare. Sul lato palestinese, è ancora peggio. I partiti politici sono ancor più divisi: ci sono i nazionalisti laici, ovvero Fatah con Abu Mazen e Salam Fayyad e poi ci sono gli islamisti maggiormente con Hamas, e anche i territori sono divisi: la Cisgiordania a Fatah e la Striscia di Gaza a Hamas. Ma Fatah e Hamas rappresentano solo una parte dei palestinesi e tutte queste divisioni influiscono e hanno delle ripercussioni sulla controparte israeliana”.
Nessuno è aperto a fare concessioni. “I problemi sono rappresentati da due questioni: l’ebraicità dello Stato d’Israele e le sue minoranze, e il riconoscimento dello Stato della Palestina. Non ci sarà alcun accordo e i palestinesi lo sanno, e inoltre non ci sarà alcun Diritto del ritorno”.“Il terzo protagonista nel processo di pace sono gli Stati Uniti”, che ha potere e influenza su entrambi le parti. La soluzione per la riconciliazione è rivolgersi alla comunità internazionale e il picco sarà quando a settembre si terrà il voto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. E “se riceveranno il veto da parte degli Usa si andrà all’Assemblea generale”.
Perché i palestinesi chiedono questo?
“È l’unica cosa che possano fare”
E cosa accadrà?
“Nulla in particolare. Avremo un’altra risoluzione Onu con nessun significato operativo”. Siamo in una situazione di “perdita-perdita” alla pari. Ci saranno “pressioni politiche su Israele da parte della Comunità internazionale, un innalzamento delle aspettative da parte dei palestinesi, e dopo la risoluzione ci sarà il collasso”.
Ma non può finire qui. E poi?
“Una terza Intifada, un altro periodo di spargimento di sangue, e le due parti lo sanno, è un buon motivo per fare qualcosa”.
Con la Siria cosa si aspetta Israele?
“La questione è più semplice. Il governo israeliano non ha alcuna intenzione di restituire le Alture del Golan”.
Ma la Siria cosa potrebbe offrire in cambio?
“Vogliamo che tagli i rapporti con l’Iran e che interrompa i rifornimenti verso il Libano. Fino a quando non accadrà, nulla cambierà”.
“In politica bisogna essere saggi non giusti”, dice Mark A. Heller. Il problema però nasce in casa: “Agli ultraortodossi non importano gli interessi nazionali, ma solo quelli della loro comunità”, del loro orticello e del problema “dell’abitazione e dei sussidi per i loro figli”.
E il ruolo dell’Europa?
Ha importanza solo se si muove a braccetto con gli Stati Uniti, anche se “è più creativa dell’America perché solleva idee” e suggerimenti. “Le road map sono state create dagli europei”, affermano i due analisti. “E’ difficile prevedere o analizzare il futuro perché in questo Paese è difficile analizzare anche il passato”, dice sorridendo Mark A. Heller. “E’ importante vedere come sarà scritta la risoluzione Onu, ci sarà tanto da pensare e ci saranno tante teste che si gratteranno”. (McdM)