Avremmo dovuto incontrare il primo ministro palestinese Salam Fayyad, ma all’ultimo minuto ha disdetto l’incontro e quando arriviamo a Ramallah ci accoglie uno dei suoi uomini in un elegante ristorante della Cisgiordania.
Xavier Abu Eid, consigliere per le Comunicazioni al Dipartimento per i negoziati dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ci conferma che la situazione nei territori palestinesi è migliorata negli ultimi cinque anni. Ci parla della Storia della Palestina dal 1886 quando c’era l’Impero Ottomano e come suo nonno ha perso tre dita combattendo contro i turchi, dopo la prima guerra mondiale arrivarono i britannici e poi passa al 1933 dopo l’elezione di Hitler in Germania quando la percentuale di ebrei era bassa, un salto nel 1948, anno della dichiarazione dello Stato di Israele, quando fu inviato un mediatore dell’Onu e menziona la risoluzione 194 sul Diritto del ritorno dei rifugiati, mai applicata. Nel 1949 Israele viene accettato nelle Nazioni Unite. Ci racconta come i palestinesi non abbiano un loro Stato sovrano e che non riesce neanche ad avere sul territorio locale i ripetitori della telefonia mobile, il gestore “Jawwal ha le sue attrezzature e dispositivi a Londra perché Israele non ci permette di averli qui”. Guardiamo il nostro telefonino Tim che da Cellcom si è agganciato ora al gestore Jawwal, che con un sms ci saluta e ci dà il benvenuto in arabo “Marhaba”, e in inglese ci accoglie poeticamente con una frase romantica “Odora il gelsomino e assaggia le olive”. Ramallah ha un nonsoché di nostrano e mi ricorda le mie origini partenopee. L’atmosfera è più musicale, più movimentata e c’è più traffico, molte strade non sono asfaltate. L’autista del nostro pulmino è arabo-israeliano, ma ha il permesso di entrare nei territori palestinesi. La targa del veicolo è palestinese e anche lo stile di guida cambia: il conducente si toglie subito la cintura di sicurezza appena oltrepassa il varco del check-in israeliano. Al ritorno ci fermeranno e ci faranno scendere per passare al controllo passaporti come al confine tra Paesi diversi, come alla dogana.
Xavier Abu Eid ci spiazza dicendo che “non è vero che la Palestina non riconosce Israele. Non è l’esistenza dello Stato d’Israele il problema, ma è l’esistenza dello Stato della Palestina. È disgustoso e offensivo dire che Gerusalemme è degli ebrei. Gli arabi hanno il 12% di Gerusalemme est e l’88% è degli ebrei si sono presi la parte ovest usando la forza. Noi vogliamo una città condivisa, aperta a tutti. Io sono cristiano, nato a Betlemme. Rivogliamo i nostri diritti. E non è vero che i palestinesi vogliono indietro la loro terra per minacciare gli israeliani. È molto razzista pensare che qualcuno non appartenga a questa regione quando noi siamo qui da prima, da anni e anni”.
Per risolvere il problema dei rifugiati?
“Israele deve riconoscere la responsabilità per onorare i loro diritti secondo la risoluzione Onu e la risoluzione dà loro il diritto di scelta: 1) tornare a Gaza e in Cisgiordania 2) Restare dove sono 3) ri-insediamenti 4) tornare nello Stato d’Israele. E su questo Israele non ha nulla da dire. La legge internazionale dice che spostare la tua popolazione e metterla in un pezzo di terra è un crimine di guerra”. E poi, “io non amo i muri, ma se altri li vogliono non devono costruirli sulla mia terra. 82% della barriera tra Israele e la Palestina si trova su territorio palestinese e non al confine”.
I palestinesi fanno paragoni con l’Apartheid in Sudafrica.
“Ma lì non hanno mai avuto strade per i bianchi e strade per i neri. Qui abbiamo strade per i coloni illegali e per i palestinesi. Molti dei coloni sono lì per motivi economici, non ideologici. Ricevono soldi da Israele, abitazioni a buon prezzo, e trasporti”, dice Xavier Abu Eid. Avigdor Lieberman, membro della Knesset, ministro degli Esteri, israeliano nato in Russia, “vive in territorio palestinese ed è illegale, e Israele ha costruito una strada apposta per lui per fargli raggiungere il suo ufficio, 25 minuti per arrivare al lavoro, mentre per la sicurezza del signor Lieberman i nostri bambini non possono camminare per andare a scuola, che è a tre chilometri dalle loro case perché c’è la barriera che blocca il passaggio e devono camminare 12 chilometri per aggirare l’ostacolo e raggiungere la fermata dell’autobus e impiegano ore per andare a scuola. Abbiamo delle restrizioni di mobilità. Ci sono i check points e le strade sono chiuse” e tutto questo si chiama “controllo, colonizzazione della popolazione non del territorio, non possiamo neanche rilasciare dei documenti d’identità alla nostra gente, e i matrimoni misti sono vietati, pena la deportazione o gli arresti e la carcerazione fino a sette anni. E ci sono ottomila che da Gaza vivono nella West Bank che se vengono scoperti da Israele verrebbero deportati a Gaza. Abu Mazen non ha il diritto di tornare a Jaffa, nella sua città natale. Il nostro obiettivo è di avere uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme e neanche un colono. Dopo la risoluzione Onu, e una volta che avremo uno status quo, potremo fare pressione su Israele e sulla Comunità internazionale”. Il messaggio che vogliono mandare a Israele è: “Se volete essere uno Stato andatevene via dall’altro. Dalla mia casa vedo il mare ma non posso raggiungerlo”.
Gli chiediamo notizie su Gilad Shalit, il primo dei soldati israeliani catturati dai Palestinesi dopo Nachson Wachson, catturato nel 1994.
“Conoscete qualche nome di prigionieri palestinesi? Sapete quanti sono stati catturati?
Migliaia. Non ho nulla in contrario al rilascio di Shalit e mi auguro che torni a casa”. Anche Shalit fa parte dei negoziati che torna ad affrontare con sfiducia. “Dopo 20 anni come si fa a fidarsi dei negoziati? Cosa sarà di noi? Riusciremo ad avere il diritto al voto? L’unico accordo che abbiamo raggiunto è di non tornare alla violenza. Ma le manifestazioni continuano anche a livello internazionale per chiedere a Israele di fermare la costruzione di altri insediamenti. Non possiamo attendere che Israele prenda una decisione e nel frattempo non fa che continuare a occupare in cambio della tregua”.
Israele dice che non può giungere ad alcun negoziato se Hamas è nella coalizione. “Non ci sarà né Hamas né Fatah nel prossimo governo”. Gli chiediamo chi sarà il nuovo premier palestinese, ma dice di non essere “nella posizione per rispondere”. Gli chiediamo come pensa che vengano collegate la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, e risponde che anche questo fa parte dei negoziati. “Abbiamo bisogno di 60 chilometri tra il sud della West Bank e il nord di Gaza per creare un ‘corridoio’”, e si deve stabilire se questo passaggio sarà sotto il controllo di Israele o dei palestinesi. “Per ora sappiamo di avere il supporto di due terzi dell’Onu, ma Israele è come il Farwest, fa come gli pare”.
Ribadisce che lo Stato della Palestina non è un’alternativa ai negoziati. Dagli accordi di Oslo, Israele si è allargato e questo è illegale. Non rispetta la legge internazionale. La Corte internazionale di giustizia ha decretato che i confini del 1967 sono illegali”. (McdM)