Come tutti gli ortodossi indossa la kippah, ha un’età che si aggira attorno ai 45 anni, sposato, papa di sei figli e nonno di un nipote che è più grande del suo ultimo bambino. A 17 anni arriva in Israele dalla Francia, suo Paese di origine. Master in filosofia, è preside di una scuola elementare religiosa nel quartiere ebraico nella vecchia città di Gerusalemme. Itzhak Grunewald ci accoglie nella sua casa, una villetta a due piani ricoperta dalla tipica pietra bianca di Gerusalemme imposta dal regolamento edilizio della città, eredità del mandato britannico.
Cinque anni fa decide di cambiare casa e andare a vivere in uno degli insediamenti in Cisgiordania, il blocco di Gush Etzion, a sud di Gerusalemme sulla strada per Betlemme, considerato illegale dalla Comunità internazionale. La sua è stata una scelta economica, le abitazioni costano meno che a Gerusalemme. “Quando ho comprato la mia casa si sparava in questa zona”. I palestinesi ritengono Gush Etzion un ostacolo al dialogo con gli israeliani. Per gli ebrei ultraortodossi quelle case sono una realtà legittimata dalla storia e dalla religione. E sono una realtà in continua evoluzione, spesso fuori dal controllo del governo israeliano.
“Il muro è una vergogna per me come ebreo e come religioso”, dice Itzhak Grunewald, fermamente contrario alla costituzione di due Stati “perché”, dice , è “discriminatorio”. “Devo dire la verità, quella verità che spaventa i politici”.
“Da ebreo dico che è una vergogna discriminare una minoranza, devo rispettare un arabo. Come essere umano merita ogni diritto, compreso il voto a livello municipale, ma non quello in Parlamento”.Occhi chiari, biondo, espressione abbastanza serena, anche se per un attimo si innervosisce con due dei suoi bambini che cominciano a giocare in salone a voce alta mentre siamo nel suo giardino a parlare attorno a una tavola imbandita di leccornie: datteri, biscotti al miele, cioccolata, squisita frutta secca e uva succosa senza noccioli, e dell’ottimo tè ghiacciato. Un albero di fico alle spalle, un piacevole venticello e gli occhi degli ospiti puntati su quello che il colono dice con determinazione e schiettezza. Alcuni di noi si scioccano quando dice con durezza in tutta onestà: “Non posso riconoscere uno Stato Palestinese all’interno del mio Stato”. Del gruppo c’è chi resta sbigottito, e vuole la conferma di aver capito bene. Può sembrare spaventoso quello che dice, anche se si può comprendere il dolore e la rabbia di un ebreo che ha avuto il nonno sterminato nel campo di concentramento di Auschwitz e una famiglia perseguitata che ha sofferto. È commovente sentirlo parlare con coraggio, pur suscitando preoccupazione e timore per il suo razzismo. Lui stesso se ne rende conto, ma spiega: “O lui o me. E io scelgo me”.
Itzhak dice che non vuole mentire al mondo. “Sono un sognatore ma pragmatico e non voglio annettere e impossessarmi della Giordania e non voglio essere un conquistatore e non voglio essere un colono. Ho il diritto di vivere qui, questa è la mia terra, e non dei palestinesi. Li rispetto come minoranza. Ma se loro avranno uno Stato non mi rispetteranno mai”.
Lei è nato in Francia ed è venuto dalla Francia a vivere in Israele. I palestinesi sono nati qui e vivono da anni nella loro Terra. Che identità darebbe loro?
“Non lo so. Come i turchi in Marocco potremmo considerarli residenti permanenti”.
Tra di noi c’è chi mette in gioco Viktor Frankl, neurologo e psichiatra austriaco, dal 1942 al 1945 prigioniero in quattro campi di concentramento nazisti, tra cui Auschwitz e Dachau. Diceva che “se Dio ti vuole davvero punire, ascolta le tue preghiere”. Itzhak replica dicendo che si batte per avere “sicurezza” perché gli arabi “potrebbero diventare una maggioranza”. E ribadisce senza sosta: “Questa è la mia terra. Sì ai palestinesi come minoranza, ma non come cittadinanza, e se ne vogliono una possono andare a vivere in Giordania”. È ostinato. Ma mostra qualche debolezza. “Ho paura della guerra e prego che non ve ne sia un’altra”.
Sembra proprio che lei sia a favore di un Stato religioso, ebraico, e non laico. E se Dio non ascolterà le sue preghiere? E se verrà fondato lo Stato della Palestina?
“Sarà impossibile per un ebreo vivere negli insediamenti. Se vado con la kippah a Ramallah mi uccidono. Il paradosso è che noi li accettiamo. Abbiamo tanti operai palestinesi qui, ma io non posso andare a lavorare a Hebron o a Jenin”.
Sua moglie non è d’accordo con lui su tutto, ma in linea di principio segue le idee del marito ed è pronta a fare altri figli. Anche Jonathan Medved indossa la kippah. È un imprenditore venuto dalla California 31 anni fa, cresciuto in una famiglia ebrea, ma non religiosa e liberale, pacifista, contro la guerra, di orgini tedesche. Ha studiato Storia a Berkley, l’uiversità dei “fricchettoni”. Il suo primo viaggio all’estero finanziato dai suoi genitori è stato in Israele nel 1973. “Ai miei occhi era un Paese provinciale, socialista, c’era la tv in bianco e nero, e i lavoratori venivano considerati degli eroi. Me ne innamorai e da allora sono tornato una volta l’anno”.
Da quando vive permanentemente in Israele con la moglie e quattro figli è diventato ortodosso. “Non è successo da un momento all’altro, è stato graduale, quando abbiamo deciso di avere una famiglia”, dice. L’appartenenza a una religione sembra essere al centro di ogni tavolo di discussione e anche se non se ne sottolinea l’importanza la sua presenza è più che evidente.
Jonathan Medved racconta come è diventato un milionario, fondatore di un’azienda che crea e fornisce videosuonerie per cellulari, e spiega come Israele sia un Paese hitech. È il terzo Paese tecnologico al mondo, dopo Stati Uniti e Cina ed è il secondo nell’innovazione: “dopo la Silicon Valley ci siamo noi”. Israele ha inventato Skype e la chiavetta Usb, costruisce macchine elettriche, è il tempio dell’energia solare, è la mente dei chip di lettori dvd e delle scatole per la tv satellitare. “Produce cose che usiamo tutti i giorni”. È il Paese che desalinizza l’acqua del mare e pianta frutta e verdura nel deserto. “È uno stereotipo quello di credere che Israele produca solo droni, armi e altro materiale militare”.
“Non è una questione di cervelli, quelli ci sono in tutto il mondo, ma è grazie alla nostra capacità di rischiare”, spiega Medved. “C’è un mix culturale qui e abbiamo un atteggiamento verso il rischio che viviamo ogni giorno. Il rischio fa parte della nostra vita, è inserito in ogni cosa che facciamo, conviviamo con il rischio esistenziale, i nostri figli vanno a scuola rischiando” mentre viaggiano sui pulmini gialli, target di razzi e attentati. E siamo un popolo di emigranti: un emigrante è stato un imprenditore della propria vita”. E scherzando aggiunge: “Ha fondato My Life Inc.”
Figlio di imprenditore di un’azienda di fibre ottiche quotata in Borsa, ha contribuito alla crescita di Israele, un Paese giovane che ha appena 63 anni e tanto futuro florido, industriale e avant-garde. “Qui c’è Intell, 6mila gli impiegati di Hp, 1500 di Google, tanto per fare qualche esempio, e siamo solo 7.7 milioni di abitanti, quanto una piccola cittadina sconosciuta della Cina”. Producono un quarto di quello che produce l’America con la partecipazione anche degli “ultraortodossi nell’Industria tecnologica e due arabi su tre lavorano nel settore hi-tech medico. Nell’intelligence, sono pochissimi gli arabi per motivi di sicurezza. Ma penso che la Primavera Araba sia positiva per tutto il mondo, è bello vedere la gente libera di comunicare, anche su Facebook”, conclude sorridendo Jonathan Medved. (McdM)