La prima parola che mi viene in mente dopo aver visitato Israele è “pace”. La seconda è “odio”. La storia infinita di chi vuole la pace, ma che si odia l’un l’altro, non come individuo ma come nazione. Da una parte una fetta di Israele fermamente contraria alla creazione dello Stato della Palestina e dall’altra una fetta di palestinesi che non riconosce lo Stato esistente d’Israele. Ma ci sono anche israeliani e palestinesi che convivono e collaborano lavorando quotidianamente insieme, che si accettano reciprocamente. In tutto 7.7 milioni di abitanti in una piccola chiazza di terra che risalta come fuoco agli occhi della comunità internazionale. Quando si pensa a Israele si pensa subito a “guerra”. Non è così. Israele è molto di più. È il terzo Paese tecnologico al mondo, dopo Stati Uniti e Cina. Ha inventato Skype e la chiavetta Usb, costruisce macchine elettriche, è il tempio dell’energia solare, è la mente dei chip di lettori dvd e delle “scatole” per la tv satellitare. È il Paese che desalinizza l’acqua del mare e pianta frutta e verdura nel deserto. È uno stereotipo quello di credere che Israele produca solo droni, armi e altro materiale militare. A Gerusalemme non si vede neanche un soldato per le strade. C’è calma nella città “santa”. C’è tranquillità. Lo scenario è dominato dalla pietra bianca che riveste l’intera città, come impone il regolamento edilizio comunale. Pulita, ordinata, civile, a cominciare dai pannelli solari sui tetti delle case, obbligatori per legge. La tensione degli anni passati è certamente allentata. Percorro il centro in auto, passo accanto alla Knesset, alla sede del governo, all’hotel King David che fu fatto saltare in aria nel 1946 provocando 91 morti e riaperto solo 21 anni dopo nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni quando Israele conquistò Gerusalemme est. Giro all’angolo più avanti dove esplose uno dei tanti autobus uccidendo decine di persone. Quel ricordo è vivo, ma lontano. L’unico conflitto in questo momento è sul tavolo dei negoziati che sembrano proprio non avere né fine né soluzione, probabilmente anche perché tra la popolazione le idée sono contrastanti. Appare difficile, infatti, far andare d’accordo gli israeliani anche tra di loro. C’è un detto ebraico che dice: “Quando due ebrei discutono ci sono tre teste che devono concordarsi”. Con il conflitto israelo-palestinese non se ne viene a capo. Qualcuno dice scherzando che “forse con l’arrivo del Messiah si potrebbe risolvere”. Forse l’illusione di porre fine alla questione è un’altra guerra. Si teme il peggio e nel frattempo si attende. “In Israele ora c’è tregua, ma da un momento all’altro potrebbe capitare qualsiasi cosa”, commenta un ufficiale dell’Esercito dislocato ai confini con il Libano, “Siamo abituati a cambiamenti improvvisi”.
Il nostro viaggio dura cinque giorni, un tour de force che ci porta da nord a sud, dal mare alle montagne. Arriviamo a Tel Aviv in missione con Project Interchange, un’organizzazione dell’American Jewish Committee, non-profit e a-politica, che mette in contatto leader del mondo con Israele per far conoscere il Paese mediorientale da vicino e fornire notizie di prima mano. Io faccio parte del gruppo, invitata personalmente da una collega ebrea americana. Per cinque giorni viaggio con altri partecipanti selezionati, tra cui un diplomatico tedesco del dipartimento Affari politici all’Unione europea che si occupa di Medioriente, un collaboratore per i diritti umani del Partito dei Verdi al Parlamento tedesco Bundestag e il direttore nel Regno Unito di Giornalisti senza frontiere.
Sarò testimone della Storia contemporanea non solo come giornalista (la professione non va mai in vacanza), ma come donna dalla doppia cittadinanza, italiana e americana, nata a New York City, città natale di una folta comunità ebraica. Mi sdoppierò facendomi anche coinvolgere emotivamente con un ritorno al passato in una società matriarcale che ha grande rispetto per la donna e per il suo ruolo sia all’interno della famiglia sia professionalmente e anche spiritualmente: “La donna non ha bisogno di coprirsi il capo quando entra nei luoghi sacri – ci spiegano- a differenza dell’uomo che deve indossare la kippah perché la figura femminile è considerata essere più vicina a Dio”.La nostra guida è Hanna Kessler, una donna di origine polacca, forte e colta, ebrea, madre di quattro e già nonna. Laureata in matematica statistica e geografia alla Hebrew University of Jerusalem. Visitiamo la città di Sderot, a pochi metri dalla Striscia di Gaza, dove il capo della security della cittadina, Kobi Harush, ci mostra i resti dei Kassam, razzi rudimentali in acciaio pieni di esplosivo prodotti da Hamas, sparati negli anni dai territori palestinesi.
Voliamo in elicottero fino al confine con il Libano, vediamo la bandiera di Hezbollah, villaggi sciiti e sunniti, parliamo con un maggiore dell’Esercito israeliano, una giovane donna in uniforme che indossa sandali dai quali spuntano unghie dipinte con smalto rosa, permesso dal codice militare. Procediamo fino al confine con la Giordania, sorvoliamo la Galilea, e il cosiddetto “mignolo” d’Israele al confine con la Siria, sfioriamo le Alture del Golan, incontriamo il fiume Giordano che sembra più un ruscello a dir la verità. Un ex colonnello commenta: “Ha avuto un ottimo Pr”.
E poi ancora, vediamo il Mar di Galilea e giù verso il Mar Morto. Attraversiamo il deserto e lì vediamo le coltivazioni di palme di ogni tipo e di pomodori e altri vegetali, una fervida vegetazione. Una terra secca e arida, ma ricca e colma di frutti della natura che riescono a crescere dal nulla. Allora i miracoli sono possibili. Come l’isola felice della regione Gilboa, nella bassa Galilea, dove palestinesi e israeliani convivono e lavorano felicemente insieme in un progetto di coesistenza. Incontriamo politici locali, ci mostrano la loro visione della situazione attuale e futura, alcuni con pessimismo e altri con speranza. Ognuno racconta una fetta di verità. Veniamo anche accolti nella casa di un colono ebreo alle porte di Gerusalemme e parliamo con un imprenditore americano ebreo ortodosso che dalla California laica è venuto a vivere nella città divisa e condivisa da ebrei, musulmani e cristiani. Incontriamo la stampa locale che vive sul campo ogni giorno. Odoriamo l’aria e i profumi di Bouganville, attraversiamo il check point con la Cisgiordania per andare a Ramallah. Il primo ministro palestinese Salam Fayyad all’ultimo momento disdice l’appuntamento che aveva fissato con noi e manda uno dei suoi uomini che ci parla di numeri, di percentuali e di mappe. Ascoltiamo esperti dell’Istituto nazionale di sicurezza, uomini di legge e di strategie che danno consigli al primo ministro e collaborano con il governo. Dati, informazioni, proiezioni, possibilità e opzioni per raggiungere la pace. Ne usciamo con più domande di quante ne avessimo prima di essere partiti. Domande, però, che sembrano essere sempre le stesse, come quelle che feci al premier israeliano Yitzhak Rabin, in esclusiva per la Radio Vaticana dove lavoravo a quei tempi, venuto a Roma in visita ufficiale 18 anni fa. Da allora, forse sono cambiate le risposte, anche se di poco. Dal 1993 al 2011 sono cambiate le persone al potere, e neanche troppo. In fondo non sono cambiati tanto neanche i giornalisti. Emozionante l’incontro con il collega Emanuel Rosen, volto popolare di Channel 2, rete televisiva commerciale di Israele, che 18 anni fa accompagnava Rabin nel suo viaggio nella capitale italiana. Mentre giriamo assieme per le strade del quartiere ebraico a Gerusalemme, una donna ortodossa lo riconosce, anche se non avrebbe dovuto visto che per la sua religione le è vietato guardare la tv. Mangiamo nell’unico ristorante non kosher della zona vicino al mercato. La vita non è glamour e moderna come a Tel Aviv, ma più internazionale che a Roma. Da 700 metri d’altezza ti sembra di vedere tutto il mondo. E’ piccolo il Muro del pianto, ma l’immensità che emana impressiona anche un eretico. Percorriamo la Via Crucis, stazione per stazione, attraversando il mercato, lo shuk, dove compro l’unico souvenir del viaggio, una maglietta con la scritta “pace” in tre lingue, inglese, ebraico e arabo: “Peace, Shalom, Salām”.
E lascio Gerusalemme con il ricordo delle lacrime, le stesse che ingoio a fatica ogni volta che ascolto le storie dei sopravvissuti all’Olocausto, dopo la visita al museo Yad Vashem, il memoriale ufficiale di Israele fondato nel 1953. (McdM)