Quando la Società fa paura


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Soli, impauriti, 'barricati' in casa

'Tra rinserramento individuale e indifferenza collettiva' p

di Rita Piccolini

Continuano gli incontri organizzati dal Censis nell’ambito dell’iniziativa “Un mese per il sociale”. Al centro della riflessione di Giuseppe Roma, Direttore Generale del Censis, di Elisa Manna responsabile settore Politiche culturali, e del presidente De Rita, la diffusione a macchia d’olio delle grandi patologie individuali legate al malessere della società in cui viviamo (depressione, disturbi dell’alimentazione, dipendenze, suicidio), o quelle sintomo di una crescente indifferenza alla vita collettiva (stanchezza di vivere, rimozione delle responsabilità, crisi dell’empatia nelle relazioni interpersonali).

C’è uno spaesamento generale, è pertanto necessario cercare nuovi meccanismi per dare contenuti, per avviare un percorso di autocoscienza collettiva intorno a alcuni temi fondamentali per la convivenza. E’ questo il tema da affrontare, il problema da risolvere, la riflessione a cui il Censis vuole stimolarci, per frenare quella che tutt’oggi appare come una inarrestabile deriva della nostra società. Sì, proprio una deriva da cui sono nati comportamenti che ci fanno sentire “stranieri in casa nostra”, che producono una sensazione di alienazione subìta con rabbia repressa e che spesso spinge gli individui all’isolamento, alla solitudine, alla paura.

Ma come è possibile dipingere una realtà a tinte così fosche all’indomani della consultazione referendaria, nel giorno in cui gli italiani hanno espresso in modo libero e inequivocabile i propri convincimenti su regole fondamentali della vita sociale, dimostrando indipendenza dalle forze politiche e grande autonomia di giudizio? La domanda la pone lo stesso professor De Rita che tenta una risposta. Gli anni dell’individualismo sfrenato e delle pulsioni sregolate non è un fenomeno momentaneo, ma si protrae da circa 50 anni. Il ciclo è lungo e ci vorrà del tempo per chiuderlo. Nonostante questo segnale e al di là dell’onda emotiva positiva che ha coinvolto soprattutto i più giovani, secondo De Rita “ tutto resterà ancora com’è”. La struttura psicologica del Paese “resta quella che è”. Ci vuole del tempo prima che una società “malata”, che crea comportamenti “malati”e una dimensione estremamente individualistica dell’intero sistema cambi. C’è stato “una ventata” di novità, un primo segnale contro il soggettivismo a favore di valori condivisi, ma i problemi sociali restano, perché sono “strutturali”.Restano il solipsismo, la soggettività etica, la furbizia dell’arrangiarsi, il disagio di stare insieme. Il meccanismo che scatena questi atteggiamenti sfida il tempo. “Non c’è più una realtà compatta” e aumentano nella società la paura, il panico, le dinamiche regressive. La società deve capire come cambiare se stessa e come curare il proprio disagio.

Ma andiamo con ordine. In una società in cui i riferimenti ai valori comuni si sono fatti sempre più labili, in cui i rapporti tra gli individui sembrano aver perso ogni “umanità”, leggiamo nel rapporto, il singolo pone in essere strategie difensive di adattamento.

Quali? Se il Soggetto è metro di tutte le cose, se le regole non valgono più, se persino le leggi vengono ignorate, se ciò che prima era condannato oggi non solo è legittimato ma addirittura esaltato, allora significa che il mondo si è capovolto, e questo crea un senso di vertigine, per sconfiggere la quale adottiamo vari comportamenti: l’imitazione prima di tutto, la strategia di chi “non capisce ma si adegua”.

Ne sono un esempio la signora “bene” che comincia a esprimersi in maniera greve perché quelli che contano lo fanno “pure in televisione”, o che si abbiglia come una “starlette ” televisiva in cerca di notorietà anche se ha superato “gli anta”. Oppure gli studenti che si vantano di aver copiato perché “sono furbi”, o che si lasciano coinvolgere passivamente in episodi di bullismo. Certo si tratta di persone che hanno un sistema di valori scarsamente interiorizzato, ma attenzione, avverte il rapporto, non sempre è proprio così. E’ che questi atteggiamenti si allargano a macchia d’olio, perché nessuno li condanna. Un’altra strategia di adattamento consiste nel dare il “disco verde” a quelle pulsioni che prima venivano ritenute “inconfessabili”. Se lo fanno tutti, dai politici ai cosiddetti vip, perché non dovremmo farlo anche noi. Un esempio? Il porno come sconfinamento legittimato, che attrae persone di tutte le età, di ogni censo e livello di cultura. Secondi i dati di una indagine della Società di Andrologia medica e Medicina della sessualità già a 14 anni gli adolescenti cominciano a frequentare i siti porno più espliciti e violenti. Contenuti pornografici che solo pochi anni fa venivano definiti “perversi” vengono diffusi con disinvoltura anche dalle Tv a pagamento.

Poi c’è l’insensibilità, quella manifestata sempre più dagli italiani rispetto al dolore e alle sventure altrui. Recentemente sia il presidente della Repubblica Napolitano che il presidente della Cei, cardinal Bagnasco, hanno sentito il bisogno di esprimere disapprovazione per la crescente assuefazione al dolore e alle sciagure degli immigrati dei barconi che colano a picco prima di approdare a Lampedusa. Questo è l’esempio più eclatante, ma ce ne sono molti altri, spia di una “trasformazione antropologica” che ha prodotto una sorta di “innalzamento della soglia” in grado di produrre comportamenti empatici. E’ come una anestesia sociale. Del resto ci stiamo abituando a immagini di persone ferite o uccise in strada, senza che nessuno si fermi a soccorrerle. Ricordate l’uomo ucciso a Napoli all’esterno da un bar? O la donna uccisa da un pugno nella metropolitana di Roma? I passanti si allontanavano, o peggio scavalcano i corpi distesi. Come siamo distanti dall’immagine dell’italiano tutto cuore e solidarietà!

E poi c’è la casa, casa dolce casa vissuta sempre più come una tana. Nascondiglio per sfuggire al pericolo rappresentato dagli altri. Zona da fortificare con sofisticati strumenti di sicurezza o con semplici inferriate, da difendere dai ladri, zingari soprattutto, vero incubo degli italiani, che a Roma sono temuti più che a Londra, a Parigi e a New York. Alcuni le insonorizzano persino. Tutto concorre oggi a far percepire la casa come un fortilizio che ci difenda dal caos del mondo esterno e che fortifichi la sensazione che “il mondo sia un posto pericoloso”.

E’ un Paese impaurito quello che ci presenta il Censis, che ha in corso una specifica ricerca su questa problematica di prossima pubblicazione. Tuttavia, anche questa volta un lato positivo si può scorgere nella ricerca: tra i fortini personali che creiamo per difenderci dalle nostre paure ci sono gli affetti familiari. Ci si chiude al mondo ma le persone care e gli amici riacquistano un ruolo importante nelle nostre vite, anche se come un “bene rifugio”. Poi ci sono il “rinserramento virtuale”,soprattutto tra i più giovani, che si vantano di avere tanti amici sui social network, ma fanno fatica ad averne nella realtà , e per ultimo il panico.

La paura può avvitarsi, può diventare una “strega ipnotica” e può non lasciare scampo. Paura di non trovare lavoro, o di perderlo, di non reggere la competizione “nel ritmo di vita pulsante e caotico della società dei consumi”. Crescono la depressione e gli stati ansiosi. Ma il dato va interpretato: secondo lo studio europeo Esemed, in Italia non cresce molto “il disturbo depressivo maggiore”, la depressione propriamente detta, ma quell’alta gamma di sintomi di tipo depressivo connessi al cambiamento sociale. E anche qui, inaspettatamente, si coglie un aspetto in parte positivo. Sono sì le persone più fragili a soffrire di disturbi da panico e ansia sociale, ma anche le più sensibili, quelle meno ciniche e che meno accettano di omologarsi al peggio. “Proprio quest’ultima forma di reazione alla società del disordine e della confusione, che non è una forma di adattamento, ma l’espressione di una sofferenza individuale, può paradossalmente essere espressione di sana potenzialità.”Disturbi psichici come segno di reattività, di non conformismo, di ribellione. “La speranza è che correnti vitali nella società possano captare la reattività di sofferenza dei singoli e riconvogliarle verso una ripresa della consapevolezza sociale”.