Bob Dylan compie settant’anni


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Il ribelle di Dio

Nelle sue canzoni la Bibbia e la rivoluzione bob_dylan_296

di Maurizio Iorio

Se è vero, com’è vero, che le opere d’arte invecchiano meglio dei loro autori, il caso Bob Dylan ne è un luminoso esempio. Il menestrello di Duluth, Minnesota, compie settant’anni il 24 maggio. E fa un po’ tenerezza vederlo piegato su se stesso, il volto solcato da rughe profonde come canyon, le mani corrose dall’artrosi, tanto da non consentirgli più di suonare la chitarra in pubblico, lo sguardo ceruleo nascosto sotto le falde di un cappello o dai classici way-farer. Il mito dell’adolescenza lo ha abbandonato da tempo ed è difficile, per tutta una generazione cresciuta a pane e rock’n roll, pensare che quel signore, ormai nonno, sia uno dei padri fondatori di una cultura giovanile di massa che ha cambiato la storia del XX secolo. Per questo canzoni come “The times they are ‘a changin”, “Like a rolling stone”, “Mr. Tambourine Man”, “Blowing in the wind”, adottato come inno dell’America pacifista, sembrano scritte ieri e sono ancora di sconvolgente attualità.

Come “All along the watchtower “(Tutti lungo le torri di guardia), zeppa di riferimenti biblici. Per sfatare, sempre che ce ne fosse bisogno, che il guru riconosciuto della protesta giovanile degli anni’ 60, più che un pericoloso sovversivo, era un uomo di fede, apocalittico quanto si vuole, dispensatore di anatemi, ma pur sempre con la Bibbia in bella vista sul comodino. Come dice Piero Scaruffi nella sua “Storia del rock”, “Bob Dylan è innanzitutto un mito, forse l’unico vero mito del rock, e la sua è musica mitologica, almeno dai primi inni politici fino alla conversione religiosa”. Parole sante, tanto per rimanere in tema.

Ancora, sempre Scaruffi: “Le maggiori influenze di Dylan furono la Bibbia, le leggende della frontiera e poeti epici come Walt Whitman. Quello di Dylan è un mito davvero “americano”: non Omero o Dante o Shakespeare, ma gli strumenti intellettuali dei pionieri, delle carovane, dei coloni. Dylan si misura con i profeti della Palestina e con i vagabondi della frontiera. Come loro, era soprattutto un mitomane, un uomo illuminato da Dio lungo la retta via per guidare il suo popolo lungo la stessa via”. Un popolo, peraltro, molto poco religioso, ma incline ad inchinarsi davanti alle nuove liturgie di un cantastorie che infarciva le sue canzoni di visioni metafisiche, di allegorie bibliche, di simbolismi di difficile interpretazione. Ballate di protesta, sermoni, spesso vere e proprie prediche, queste erano e sono le sue canzoni.

Negli anni ’60 la generazione dei ventenni aveva bisogno di un Mosè che li conducesse verso la terra promessa, e fu Bob Dylan a prendersi al responsabilità di traghettare le nuove generazioni sulla sponda del futuro. Sarà lui, l’erede di Woody Guthrie, il nuovo profeta generazionale, ad interpretare l’anelito utopistico di una generazione, disposta a seguirlo all’inferno, se ce ne fosse stato bisogno. L’inferno descritto, ad esempio, in “Desolation Row”, il vicolo della desolazione, una vera e propria parabola, (in “Highway 61 revisited”, 1965): “vangelo apocrifo, rivelazione inquietante del vero volto della civiltà umana, bestiario eretico di miti stravolti, il vicolo della desolazione è il metafisico regno i cui abitanti sono costretti a ripetere in eterno il loro mito. La protesta sociale si sublima in un astio astorico contro la civiltà intera”. (Scaruffi).

Il mito si è rinnovato e ripetuto per decenni, spesso con brutali cadute di tono, ma senza perdere un’oncia della sua aura. Una volta Dylan ebbe a dire: “nessuno è più stupito di me della longevità delle mie canzoni”, quasi non si riuscisse a far pace con la sua grandezza, della quale, spesso, si è dichiarato infastidito. Sta di fatto che, ormai, è un settantenne che non suona più per la sua generazione, che né ha fatto la rivoluzione e tantomeno legge la Bibbia. Si dice che la storia la scrivono sempre i vincitori.

Dylan l’ha scritta pur essendo un perdente dalla parte dei perdenti, ha illuminato la via e indicato il cammino, usando la poesia e non la retorica, suggestionando una generazione che aveva bisogno di parole che “soffiassero nel vento”. Il predicatore adesso è vecchio, scorbutico più del solito, e scrive canzoni perché non sa fare altro, ma che Dio gli renda merito per quello che ha fatto, e per averci dato l’illusione che con la musica si potesse cambiare il mondo. Buon compleanno Mr. Robert Zimmermann.