Non è un controsenso che i giovani diminuiscano fino a diventare “una merce rara” e allo stesso tempo non trovino lavoro?
In realtà è un controsenso, che si spiega con una duplice ragione: il lavoro non si crea dal nulla, il lavoro nasce in un Paese che cresce. Il nostro è invece un Paese che negli ultimi dieci anni non è quasi cresciuto affatto. Poi ci si è messa la crisi. Non possiamo pensare che l’occupazione sia staccata dalla creazione di ricchezza e di valore. Siamo un Paese abbastanza fermo e quindi l’occupazione dei giovani non è facile. Poi subentrano altre ragioni: le aspettative delle nuove generazioni cambiano in funzione del più generale livello di benessere del Paese per cui abbiamo avuto una riduzione di circa 800 mila giovani italiani che nei decenni passati facevano lavori a bassa qualificazione e l’incremento di 700 mila lavoratori immigrati che hanno colmato questa differenziazione di tipo tecnico manuale. Altro elemento da considerare è che la formazione dei giovani si è troppo allungata nel tempo e non sempre si è coordinata con il mercato del lavoro. Nonostante i nostri giovani siano in calo sono quelli che lavorano meno.
A proposito di formazione ha suscitato clamore l’intervista del Professor De Rita sul necessità di un ritorno al lavoro manuale. Abbiamo detto per anni ai ragazzi che era necessario studiare e specializzarsi sempre di più. Ora diciamo loro il contrario. Questo non crea disillusioni gravi? E poi dove si impara questo tipo di lavoro?
Quando il Censis parla di attività tecnico manuali non si riferisce ai lavori manuali di bassa qualificazione, ma a quei lavori di tipo tecnico che in Italia dovrebbero farsi, come in Europa, dopo il diploma di scuola secondaria, da un istituto tecnico o professionale. Addirittura noi auspicheremmo che le recenti normative che stanno cambiando la faccia degli istituti tecnici, cercando di riportarli a quella importanza che hanno avuto negli anni Sessanta e Settanta, possano diventare l’opportunità di una formazione di alto livello, seppur tecnica. Credo che siano necessari anche i master tecnologici dopo il diploma. Quindi il punto non è dire ai giovani di andare a fare i “garzoni di bottega”, ma che ci sono tante forme di occupazione: c’è un’occupazione in aree tecnico –artigianali -manuali in vari settori, dall’agricoltura all’edilizia, all’industria, ai servizi, al grande commercio…Sono necessari quindi tecnici in camice bianco, da fare in età abbastanza giovane. Dobbiamo puntare su l’arco di età tra i 19-24 anni, dove oggi si annida lo scoraggiamento, dove si annidano i giovani che non studiano e non lavorano , invece dobbiamo dare loro prospettive diverse.
E i precari?
Sul precariato qual è il ragionamento che si fa…I giovani sono precari bisogna stabilizzarli, e si pensa al lavoro dipendente. Ma in questo campo la situazione peggiora invece di migliorare. Non è cattiveria, ma il lavoro dipendente a tempo indeterminato presuppone un’economia che tira. Siamo in una situazione di difficoltà di sviluppo e non dobbiamo dare ai giovani precari come obiettivo: magari poco reddito ma sicuro. Dobbiamo incentivare le imprese e i giovani che hanno idee, che hanno voglia di rischiare, per mettere su un’attività autonoma, uno studio professionale, un’ attività imprenditoriale. Ora è più facile che lo facciano in altri Paesi.
In Italia non hanno neanche prestiti agevolati per avviare un’attività …servono sempre garanzie dei familiari…
Certo, ci sono mille episodi che si possono portare ad esempio. Ci sono giovani che a 20-21 anni hanno il bernoccolo di internet. Fanno il sito sul turismo, sulla scuola, ma non trovano nessuno che li finanzi. Ci sono viceversa ragazzi che grazie all’incentivazione pubblica di regioni del Nord non solo nel giro di due anni hanno avviato un’attività, ma hanno a loro volta occupato altri giovani. Invece cosa sentiamo come una litania? Precariato… lavoro stabile.
Dobbiamo superare questo clichè?
Io penso che alla fine i giovani siano più attivi e mobili di quanto noi adulti riteniamo. Penso alle decine di migliaia di ragazzi che prendono la valigia e vanno a fare fortuna all’estero. Se fossero tutti bamboccioni sarebbero tutti nella condizione di quella percentuale, comunque molto alta, di quelli che o continuano a studiare stancamente, o non sono interessati né a lavorare né a studiare, o cercano lavoro facendo i concorsi. Ecco questa è una condizione su cui intervenire. La soluzione non è una sola. Non c’è l’arma letale. Non servono le leggi: adesso si parla di contratto unico di lavoro, ma se non interveniamo sulle condizioni strutturali, è inutile che ci inventiamo ennesimi provvedimenti tutti un po’ astratti. Bisogna operare su alcuni punti precisi: la formazione prima di tutto, tra i 19 e i 24 anni . Un arco di età ora abbandonata, in cui o si fa un lavoro dequalificato o niente e non si completano gli studi, a volte nemmeno quelli della scuola secondaria superiore. C’è un tasso di abbandono altissimo. E’ necessario agire sul mondo delle imprese perché i giovani che vogliono rendersi autonomi siano incentivati a farlo. Io ha proposto che quelli che hanno già realizzato un’iniziativa siano aiutati a svilupparsi, per esempio non pagando le tasse per tre anni. Pagheranno dopo, una volta avviati senza il pericolo di fallire, e lo Stato ci guadagnerà . Dobbiamo dare questi segnali. Ci siamo dimenticati dei giovani. Continuiamo a guardarli come se fossero sempre gli eterni figli adolescenti, dobbiamo renderli giovani adulti autonomi e non dare loro il messaggio di andare via dall’Italia, come emigranti di lusso, perché è un messaggio codardo. Significa che la generazione degli adulti, che ha responsabilità, non trovando soluzione li invita ad andarsene. (R. P.)