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La gioventù negata

I giovani stanno diventando 'merce rara', sono sempre di meno e in molti scelgono di andare all’estero 'come emigranti di lusso', per trovare lavoro. Ma così, il nostro Paese si spegne g

di Rita Piccolini

Il direttore del Censis, Giuseppe Roma, nel suo intervento alla Commissione Lavoro della Camera, ha reso noto dati allarmanti: i giovani stanno diventando una “merce rara”, sono sempre di meno e in molti scelgono di andare all’estero “come emigranti di lusso”, per risolvere il problema del lavoro che in Italia per loro non c’è. Ma così il nostro Paese si spegne.

Che la giovinezza non abbia un futuro è un ossimoro, ma è di questo che si tratta. I sociologi da anni continuano a lanciare allarmi sull’emergenza dell’occupazione giovanile che rimangono per lo più inascoltati dalla politica. Che il nostro non è un Paese per giovani ormai lo sappiamo bene, non erano necessarie ulteriori prove. Ma queste conferme sulla disillusione di coloro che dovranno essere la spina dorsale del Paese nel futuro prossimo continuano ineluttabilmente a pioverci addosso da tutti i più importanti istituti di ricerca e di studi sociali. Gli ultimi dati, elaborati sulle aspirazioni e timori di 30 mila ragazzi europei tra i 15 e i 35 anni, sono dei giorni scorsi: da un’indagine di Eurobarometro, l’istituto di analisi sociale della Commissione Europea, apprendiamo che i giovani italiani sono quelli che in tutta Europa considerano meno attraente l’opzione universitaria, perché continuano a preoccuparsi per il lavoro che non si trova e quando si trova, spesso solo grazie all’aiuto di amici e conoscenti e alle cosiddette intramontabili ”segnalazioni”, la paga non è quasi mai adeguata alle spese per mantenersi e comunque non ha quasi mai attinenza con gli studi compiuti. E ancora: Giuseppe Roma, direttore del Censis, all’audizione in Commissione Lavoro della Camera lo scorso 17 maggio ha dichiarato che “L’Italia ha un sistema formativo ritardato rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea” e che “abbiamo il maggior numero di ragazzi di 15-24 anni impegnati nella formazione, il 60,4% , eppure pochissimi laureati”. Solo il 3,1% dei 15-24enni italiani ha completato il ciclo di studi fino al gradino più alto, rispetto a una media europea del 7,8%. Dei 25-34enni solo il 20,7% rispetto al 33% dei Paesi Ue . Inoltre, ci informa sempre Roma, i giovani negli ultimi dieci anni sono calati di due milioni di unità quindi, per il mercato del lavoro, cominciano a diventare “una merce rara”.

E’ un paradosso. I giovani sono meno ma non trovano comunque lavoro. Se lo trovano non è adeguato agli studi compiuti. Quindi perché studiare? Perché specializzarsi se poi per vivere si andrà a fare altro? E così interrogandosi, senza che nessuno provi a dare una risposta, si cade facile preda di quello che il professor Umberto Galimberti, in un suo libro del 2007, definisce “l’ospite inquietante”, ossia il nichilismo. “Tutto è inutile” ci dicono i nostri ragazzi, studiare non serve, le università non ci preparano ad affrontare un mondo del lavoro sempre più sfuggente e problematico. Per lavorare presto è necessario comunque andare all’estero. Ma per fare cosa? Spesso soltanto quello che in fondo si potrebbe fare anche nel nostro Paese. Si entra in un circolo vizioso avvilente che scoraggia i più, a meno che non si voglia davvero pensare che i nostri giovani siano più scansa-fatiche o stupidi dei loro coetanei europei. E poi c’è il dato più allarmante per la nostra società, quello relativo agli oltre due milioni di ragazzi tra i 15 e i 34 anni (piange il cuore a definire questi ultimi ragazzi) che non studiano, non lavorano, non cercano occupazione, non fanno niente in un “mix perverso di inerzia e sfiducia”. (La definizione è del presidente del Censis De Rita alla presentazione del 44° rapporto nel dicembre 2010). Il dato è angoscioso e più preoccupante persino di quello relativo alla disoccupazione o al precariato.

E’ dunque ben chiaro ormai che in Italia la disoccupazione giovanile è una tragica realtà e ben consolidata, che continua a crescere: lo rilevano le stime provvisorie dell’Istat sul mese di marzo, secondo cui il tasso di disoccupati tra i 15 e i 24 anni è salito al 28,6%, 0,3% punti percentuali in più su base mensile e 1,3 punti in aumento su base annua. Del dramma del 30% di ragazzi senza lavoro tuttavia nessuno sembra preoccuparsi, né i politici impegnati in estenuanti campagne elettorali, né i giornalisti occupati a raccontarcele. Sì, a volte i dati vengono forniti in tabelle graficamente ben realizzate per qualche talk show, ma poi si passa ad altro, quasi sempre alle accuse e agli insulti reciproci. In compenso, c’è sempre L’Istat, implacabile, a ricordarcelo:il tasso di inattività è nel mese di marzo al 37,7% (con una piccola diminuzione dello 0,8%).

Questa realtà nega ai ragazzi la possibilità di guardare al futuro almeno con l’ottimismo della volontà. E’ la conferma che la nostra è una società che negando il futuro ai giovani, nega il futuro a se stessa, rimanendo ad assistere senza intervenire al naufragio di un’intera generazione nel grigiore della disillusione e del cinismo nell’ipotesi migliore, o peggio nella disperazione del nichilismo e dell’autodistruzione in casi sempre meno isolati, di cui la cronaca ci costringe a occuparci .

I rave party sono l’immagine estrema ma in qualche modo simbolica di questa dimensione. Non riguarda tutti i giovani per fortuna, ma indica una tendenza in crescita:i giovani ballano, bevono, si drogano, si anestetizzano e nel vuoto assoluto di una campagna in periferia, che sia quella di Milano, o di Amburgo o di qualsiasi provincia profonda in un angolo d’Europa, cercano di distrarsi e dimenticare la loro condizione materiale e esistenziale.

Come hanno reagito i genitori in questi anni? Spaventati, impreparati, troppo severi o troppo permissivi hanno, come soluzione alternativa al nulla, abbracciato la causa dello studio. Studio e studio ad ogni costo, e poi master su master, specializzazioni, soggiorni all’estero. I genitori continuano a riproporre ai figli il modello che è stato il loro in età giovanile e che allora funzionò. Ma è ancora attuale questo modello? E’ vincente? Garantirà ai nostri figli una vita dignitosa e autonoma nonostante le cicliche crisi economiche mondiali che di tanto in tanto rischiano di mandare all’aria l’intero impianto della sistema occidentale così come lo abbiamo conosciuto finora? O almeno fornirà loro gli strumenti critici per districarsi in una realtà complicata facendo magari un lavoro manuale, o aprendo un’attività, o creando piccole imprese?

Fa discutere l’intervista a Giuseppe De Rita pubblicata sulla Repubblica lo scorso 18 aprile. Dice De Rita: “Basta corsi di specializzazione, basta master, basta studiare cose inutili. Serve un Grande piano nazionale per la formazione sul posto di lavoro, finanziato con soldi pubblici, per uscire dalla precarietà e per riportare i giovani anche al lavoro manuale”. “C'è stata una divaricazione nel mercato del lavoro-spiega il presidente del Censis: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall'altra gli immigrati, che hanno coperto i buchi lasciati liberi. I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Gli abbiamo detto: investi in istruzione che il lavoro verrà. Abbiamo pompato frequenze e titoli di studio. Colpa della liberalizzazione degli accessi universitari”. “Ma sta dicendo che studiare fa male?” gli domanda incredulo l’intervistatore. “Sì, se si studiano cose che non servono. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l'Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? E dei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d'essere? Abbiamo costruito un monumento al generico rifiutando ideologicamente la formazione finalizzata al lavoro. Così la ragazza che si è prima diplomata e poi si è presa la laurea triennale in Scienze delle comunicazioni si aspetta il lavoro mentre è destinata alla frustrazione e alla precarietà”.

E allora ha ragione Benedetta Tobagi quando ci ricorda in un lungo articolo sulle nuove generazioni rimaste senza futuro pubblicato da “Repubblica”, che nel discorso di fine anno il presidente Napolitano ha pronunciato la parola giovane 19 volte perché i dati sul malessere giovanile devono diventare “un assillo comune”, altrimenti “la partita del futuro è persa, non solo per loro, ma per tutti”.

Abbiamo chiesto a Giuseppe Roma, direttore del Censis, di approfondire alcuni aspetti relativi alla condizione giovanile nel nostro Paese

L'intervista: 'Non sono bamboccioni'