Musica - le uscite della settimana


Stampa

Carta vetrata e polvere di stelle

Nuovi album per Lucinda Williams e Over The Rhine

di Maurizio Iorio

Lucinda Williams
"Blessed" (Lost Highway)

La cosa che più colpisce, al primo ascolto di questo “Blessed”, ultima fatica discografica della songwriter Lucinda Williams, sono i fendenti di chitarra che un Elvis Costello scatenato lancia come rasoiate in “Seeing Black”, scintille nell’aria plumbea di un album “benedetto”. Nata in Louisiana, classe 1953, figlia di un professore universitario nonché poeta, la Williams è considerata ormai una delle rockeuse più rappresentative del cosiddetto roots-rock statunitense. Tanto che a darle una mano ci si è messo d’impegno anche il produttore Don Was, un re Mida della musica, capace di trasformare in oro anche l’immondizia sonora. Non è questo il caso, perché il talento della signora è universalmente riconosciuto, anche se in Italia scontiamo il solito ritardo atavico, e pochi sono a conoscenza della sua esistenza. “Blessed” è un disco dagli angoli arrotondati, considerati i precedenti, quasi che l’incipiente terza età abbia provveduto a smussare certe spigolosità tipiche del risentimento caratteriale femminile di una donna, come la Williams, duramente provata dalla vita. Certo, “Blessed” non trasuda allegria: temi come la morte, la disillusione, la consapevolezza, le asperità esistenziali, le perdite umane (la mamma, l’amico musicista Vic Chestnut), sono il bagaglio tematico cui fa da sfondo l’ umanità dolente che popola la title-track, quella umanità capace di aiutare la protagonista a redimersi ed a ritrovare la sua anima smarrita. C’è la guerra (Soldier Song), ci sono gli amanti perduti, ci sono preghiere ed esortazioni, cantilene e gradi ballate, chitarre affilate e voci ruvide come carta vetrata. Su “Blessed” aleggiano, come fantasmi, Neil Young e Tom Petty, Steve Earle e Bruce Springsteen.

Over The Rhine
"The Long Surrender" (Great Speckled Bird)

Vent’anni di carriera, quattordici album all’attivo, e tutti a chiedersi chi siano, questi Over The Rhine, alias Linford Detweiler, polistrumentista, e Karin Bergquist, voce e chitarra, una coppia di Cincinnati, Ohio, che per ribadire l’appartenenza territoriale, hanno mutuato il proprio nome da un quartiere della loro città. Produce un vecchio marpione della consolle come Joe Henry, che riveste il suono di questa raffinata coppia di polvere di stelle. “The Long Surrender”, come già i precedenti “The Trumpet Child” e “Snow Angels”, è un album aperto, nel quale le variazioni stilistiche sono tante ed improvvise, così da impedire una catalogazione certa. Jazz? Classica? Pop? Country? Blues? Di tutto un po’, ma sempre su livelli di raffinata eleganza, una mescolanza di stili che si alternano senza salti nel vuoto, con la lezione degli Everything But The Girl ben disegnata sulla lavagna. Strumenti dosati con il contagocce, armonie vocali quasi a cappella, la chitarra ed il piano che si fondono per non disturbare. Le canzoni degli Over The Rhine sono delle nicchie di calore, degli anfratti in cui cercare rifugio per esorcizzare le paure della notte. Perché “The Last Surrender” è un album contemporaneamente notturno e noir, potrebbe essere comodamente la colonna sonora di una notte passata davanti al camino mentre fuori piove, Bacco, tabacco e Venere compresi, oppure di un giallo di James Ellroy. Gli Over the Rhine parlano dei “sogni che “non possederemo mai”, del “lungo abbandono” (o del “Lungo addio” di chandleriana memoria) e del “riso che nasconde la morte interiore”, ma le atmosfere sono comunque radiose, sufficientemente jazzy e bluesy, come si conviene a chi compone musica perché possa essere la colonna sonora dei fotogrammi mentali di chi ascolta. Qualcuno la definirebbe “ambient”. Alla quale dà un contributo, guarda un po’, anche Lucinda Williams (“Undamned”).