di Maurizio Righetti
E’ stata una stagione di grande successo, un’altra, per Virginio Gazzolo, protagonista in quello che fu un cavallo di battaglia dell’indimenticabile Cesco Baseggio; “Se no i xe matti no li volemo”, commedia in dialetto veneto scritta da Gino Rocca nel 1926. Gazzolo, nato a Roma e umbro d’adozione, pur in un idioma non suo, ha dato un’altra prova del suo indiscutibile e inossidabile talento nel ruolo dell'architetto Tamberlan interpretato con una fisicità totale che, alla voce eccezionale, somma capacità di danza e di mimica di rilievo assoluto. Ma siccome non si può stare fermi a 75 anni, ecco ora l’artista pronto a proporre un originale, insolito spettacolo in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. La pièce si intitola “Per l’Unità d’Italia - Serata Pirandello”. Sarà proposta sabato 21 maggio 2011 alle 21.30 nel Teatro della Concordia di Monte Castello di Vibio (Umbria). E’ nata da un'intuizione di Edoardo Brenci, presidente della società del teatro, con libero adattamento dello stesso Virginio Gazzolo: raccontare l’epopea dell’aggregazione di un popolo – l’unità – con la voce del poeta della disgregazione dell’Io: uno, nessuno, centomila…
E’ la lettura di tre novelle sullo sfondo del periodo garibaldino, drammaturgicamente elaborate in un unico tempo: “Le medaglie”, “Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta al tempo della grande guerra europea”, “Berecche e la guerra”. La cornice che le comprende è quella dei “Colloqui coi personaggi”, tipica della produzione pirandelliana.
“L’autore - spiega Gazzolo - è solo nel suo studio: dalle orme della sera emergono fantasmi, larve di personaggi che gli chiedono di essere creati; si propongono come protagonisti di una qualche sua novella o commedia, e pretendono di raccontare loro la storia. E sono tante le figure informi che fanno ressa attorno a lui, e gridano così forte la propria voglia di nascere al mondo dell’arte, che lui, l’autore, per contentarli, è costretto a incarnarli: a prestar loro il suo stesso corpo e la sua voce. E così, nell’ombra di quello studio, tutti i personaggi parlano per bocca del loro autore”.
Ma cosa hanno urgenza di dire, di raccontare? Storie di vecchi e di giovani: padri che assistono, impotenti, alla partenza dei figli per il fronte, e chissà se torneranno, e figli che volontariamente si buttano a occhi chiusi nella mischia. Reduci garibaldini che, troppo vecchi o invalidi o pavidi per stringere ancora in mano una baionetta, la consegnano ai fratelli più piccoli, ai figli, ai nipoti, che marciano verso il massacro al canto della ‘Bella Gigogin’. E loro, i veterani, ne seguono la sorte sulle cronache di guerra dei giornali, appuntando bandierine sulle mappe militari alle pareti del loro salotto, trasformato, come per gioco, in quartier generale.
“Anche il figlio di Pirandello, Stefano, diciott’anni - ricorda Gazzolo - partì volontario nel ’17 per il fronte carsico; mentre lui, Luigi, chiuso nel suo studio romano, circondato dai suoi fantasmi letterari, constatava con angoscia e forse vergogna: la vita o la si vive o la si scrive”.
Si può dire, però, chiediamo a Gazzolo, che Pirandello abbia fatto politica?
“Politica culturale, forse. La sua adesione al Fascismo, che più tardi criticò severamente, aveva il solo scopo di ottenere il finanziamento di un grande progetto: quello di un Teatro Nazionale. Ma, forse per esigenze di propaganda, e visti gli sviluppi tecnologici, il regime preferì spendere quei soldi per costruire Cinecittà”.
Ma quale è il filo che lega l’Italia, intesa come entità unica, alla letteratura, prima ancora che alla sua nobile espressione rappresentata dal teatro?
“La lingua italiana – risponde – l’ha fondata Dante. Con tanti elementi comuni a tutti i dialetti popolari allora parlati. In tutto il Medioevo e fino all’Ottocento il sentimento di unità nella letteratura è stato grande e costante. Oltre al ‘sommo poeta’, che, nel suo ‘De Monarchia’, scritto ai primi del ‘300, non solo aveva teorizzato un’Italia unita, ma l’aveva anche immaginata come faro - non solo culturale - del mondo, basti pensare a Petrarca, Alfieri, Foscolo. Poi nel Risorgimento il movimento è diventato politico ed ha raccolto un consenso popolare perfino difficilmente comprensibile nelle sue dimensioni se non ci fossero stati tanti gesti anche eroici a raccontarcelo”
Oggi l’Unità d’Italia è un principio assodato?
“Credo sia molto attuale l’affermazione di Massimo D’Azeglio: l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani. Perché le spinte alla disgregazione non mancano. E dunque le celebrazioni giungono quanto mai opportune per ricordarci e farci definitivamente acquisire la coscienza collettiva che siamo un paese solo. Anzi, ora bisognerebbe cominciare a pensare con maggiore convinzione che siamo tutti cittadini europei. Anche qui i fatti sembrano dimostrare quanto il percorso sia lungo e accidentato. Ma, alla fine, prevarrà la coscienza unitaria del Vecchio Continente”.
Riparliamo di teatro. Lei è stato più volte considerato un attore d’avanguardia…
“ ’Considerato’ è il termine giusto. La verità è un’altra: il teatro è sempre d’avanguardia. Perché guarda costantemente al futuro. Non per insegnare qualcosa o indicare strade, ma perché solo con lo sguardo in avanti, solo con l’attenzione alla realtà pur tenendo fissi i valori storici, ha senso ogni rappresentazione. Quasi cinquant’anni fa, al tempo del Teatro 101, dove c’era gente del calibro di Gigi Proietti, Antonio Calenda, Piera Degli Esposti, Paila Pavese, ci classificavano come avanguardisti. Si può dubitare che lì ci fossero capacità tecniche, acquisite anche in anni di studio ed impegno, che esprimevano un valore assoluto più che l’idea, che ci sarà in parte pure stata, di modificare i canoni classici, di cambiare gli schemi?”
Allora, nel teatro, la tecnologia dovrebbe essere rifuggita?
“Usata in modo giusto, direi. Nelle strutture più moderne, dove l’acustica non è curata come nei teatri storici, un’amplificazione d’ambiente può starci bene. Ma l’attore che parla sulla cimice, no. Perché non imparerà mai a recitare”.
Proporre lavori di qualità spesso non dà gli stessi risultati che si ottengono con le opere più commerciali…
“Distinzione impropria. Il teatro vive di pubblico. Si può certo recitare col massimo rispetto, anzi si deve, anche davanti ad un solo spettatore. Ma l’adrenalina sale e la magia scatta quando la sala è piena, c’è poco da fare. Registrare il tutto esaurito con un’opera impegnata sarebbe l’ideale e spesso capita. Specie se si è bravi”.
Avere spettatori significa anche ottenere la parte principale delle risorse necessarie per ‘vivere’. In questo senso la concorrenza della televisione può essere letale.
“Agli albori della tv, questo può essere stato vero. E sia detto senza accusare questo mezzo che, anzi, produce tantissimo materiale di qualità e di ogni genere. Oggi è vero, invece, che la televisione ci aiuta. Direttamente, visto che fa conoscere la nostra realtà artistica; indirettamente, perché il pubblico vuole vedere la differenza fra uno spettacolo per lo più provato, riprovato e registrato e con canoni di esecuzione comunque di altro tipo e, dall’altra parte, il coinvolgimento anche emotivo che solo un attore di teatro ti può dare”.
A Monte Castello il problema del pienone non c’è, visto che i posti sono solo 99…
“Qui davvero conta la qualità. E tutto sembra rispondere al criterio. Pensi che nel 70 furono i cittadini, con una sottoscrizione, a salvare il tetto dell’edificio. Sennò la struttura sarebbe andata persa. E quando c’è stata la ristrutturazione completa si è fatto il possibile, ottenendo alla fine il risultato sperato, perché alle giuste norme sulla sicurezza fosse affiancato anche un recupero che salvaguardasse ogni particolare dell’impianto originario. E oggi i cittadini, a partire dai giovani, sono volontari che accompagnano i turisti a vedere questa meraviglia che arricchisce la cultura personale, ma ristora pure l’animo. E poi mica tutti i teatri si possono visitare ogni giorno! E per di più qui siamo nel bel mezzo di un borgo medievale piazzato a due passi da Todi e Orvieto”
E’ per questo che Lei ha scelto di venire ad abitare qui?
“Cerca aneddoti? Eravamo in tournée in Umbria un trentina di anni fa. Con Ferruccio De Ceresa, dopo avere recitato a Perugia, Terni, Narni, Orvieto, siamo arrivati a Todi. Ne rimanemmo incantati. Non eravamo ricchi sfondati, ma in quella stagione avevamo accumulato abbastanza soldi per compare una casa di campagna da queste parti. La prendemmo. Ora io abito qui con mia moglie, Angela Cardile, anche lei attrice. Ambiente e tempi sono quelli giusti per una vita impegnata, sì, ma sana. E Roma è a due passi. Le radici con la capitale restano tutte e quella è, senza il minimo dubbio, la più bella città del mondo. Nemmeno ci si vive male. Ma qui è tutta un’altra cosa. Al piacere dei luoghi si aggiunge poi il contatto con persone sempre motivate. Un esempio per restare sui temi del nostro dialogo? In questo periodo Monte Castello è piena di bandiere tricolori. Un nostro concittadino (perché io e Angela abbiamo qui la residenza da tre decenni) mi ha detto pochi giorni orsono: beh, se l’unità non la rappresentiamo noi, che siamo nel centro geografico d’Italia, e pure a mezza strada tra Firenze e Roma, allora chi dovrebbe farlo?”.
Ha un’altra buona ragione di orgoglio nazionale quel montecastellese. Gazzolo lo ha detto. E la più grande società che tutela la nostra lingua si chiama come lui. E’ pacifico che l’italiano così come è ancora oggi – e di sicuro in quanto lingua unitaria – ce lo ha regalato Dante Alighieri.
Ma Iacopone ci ha messo molto del suo. E visse proprio qui, sulla collina di Todi, che sta di fronte a questa, così vicine che sembrano baciarsi mentre insieme guardano una della più belle anse del Medio Tevere umbro.