Megalopoli ipertrofica, dove tutto è “oltre”


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Shanghai, la nuova Grande Mela

Quello che per il resto del mondo è futuro, qui è già “passato” n

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Se fino alla fine degli anni ’90 il centro del mondo era la Grande Mela, il luogo per eccellenza, dove tutto veniva alla luce prima di ogni altro posto, nel primo decennio del nuovo secolo il baricentro del pianeta si è spostato di svariati meridiani ad ovest, che, in questo caso, è in oriente. Ed anche lì c’è stato uno spostamento sensibile. Le grandi città di quella parte dell’emisfero, ipertecnologiche e contemporaneamente poverissime, Singapore, Hong-Kong, Kuala Lumpur, Bangkok, la stessa Tokio, sono state soppiantate da Shanghai, definita la metropoli che va “oltre la modernità”, dove il futuro è già arrivato, e diventa passato in un batter d’occhio. Il vero problema, a Shanghai, è reggere il ritmo, la veloci-tà, la frenesia della crescita ipertrofica. Si costruisce un grattacielo al giorno, le autostrade corrono veloci in mezzo ad una selva di scintillanti torri di cemento ed acciaio che danno alla città un aspetto da megalopoli futuristica. Manca, ad onor del vero, quello che gli occidentali sono abituati a vedere, rassegnati, nelle megalopoli del terzo mondo, da Calcutta a Mexico City, da Bogotà a Johannesburg, da Rio de Janeiro al Cairo: l’assembramento umano ed urbanistico, la crescita smisurata e disordinata, le favelas e le township a ridosso delle ville di lusso e dei quartieri residenziali, le torme di affamati e diseredati che premono, con una enorme forza centripeta, per conquistarsi un tozzo di pane ed una tazza d’acqua maleodorante. A Shanghai come a Pechino, peraltro, l’espansione urbana è stata perfettamente controllata, supportata dallo sviluppo dei trasporti pubblici (una linea di metro all’anno). Insomma, ipertecnologia e rispetto degli spazi e dell’ambiente, seppur con le mille contraddizioni di un paese dove lo sviluppo produttivo non è coinciso con la progressiva conquista delle libertà civili ed individuali. Ma forse è proprio grazie a questo, al liberismo economico che trova i suoi limiti nelle scorie dell’ideologia marxista, dove lo stato viene sempre prima dell’interesse individuale, che lo sviluppo delle metropoli cinesi sembra perfino equilibrato e rispettoso dell’uomo e dell’ambiente.

Una vecchia signora libertina e un po’ bohemienne
Una volta, negli anni ’30, Shanghai era la meno cinese delle città cinesi, guardata con sospetto dal resto del paese per la sua vocazione coloniale al libertinaggio ed al vizio. Moravia la definì, all’epoca , “l’americana”. Poi gli anni tristi del maoismo, che ne spense le velleità da primadonna, risorte dalle proprie ceneri proprio nel terzo millennio. Shangai è la città dei primati, a cominciare dal famoso treno superveloce Maglev che collega l’aeroporto di Pudong al centro della città. Trenta km in soli sette minuti. E poi i grattacieli, molti dei quali disegnati dai più famosi architetti del pianeta, la rete metropolitana più sviluppata del mondo, migliaia di centri commerciali. “Qualunque cosa tu voglia, a Shanghai c’è”, ci dice Han, la guida, che sciorina un italiano perfetto studiato al college. E’ difficile che ad un occidentale possa piacere una città cinese, troppe le diversità culturali e le difficoltà linguistiche, per non parlare dell’architettura. Eppure Shanghai negli ultimi tempi si è riempita di italiani in cerca di fortuna, arrivati in questo lembo d’Oriente come ai tempi della corsa all’oro di californiana memoria. Qui si fanno gli affari, basta liberare la fantasia ed il talento, e c’è ampio spazio per il merito. L’occidentale immagina la città come un caotico ed incontrollato andirivieni di gente, un girone infernale tetro e piovoso alla “Blade Runner”. E invece si imbatte in una città pulitissima, ordinata, ben curata, dove i vecchi lilong, i vicoli dove la gente viveva quasi in comunità, sono stati rasi al suolo e sostituiti dalle torri, senza che nessuno ne abbia risentito più di tanto. Un effetto collaterale, ma necessario, del progresso, che in Cina travolge tutto come un ciclone inarrestabile. Eppure il Bund, il vecchio quartiere coloniale af-facciato sulla riva ovest del fiume Huangpu, conserva intatto il suo fascino retrò, al pari della via dello shopping, l’adiacente Nanjing Road, dove espongono tutte le griffe occidentali. Ma basta addentrarsi nei vicoli laterali, dove torme di venditori assalgono il turista con l’offerta ir-resistibile del tarocco d’autore (orologi “Lolex”, Vuitton, Valentino, Prada), per ritrovare un po’ di autentica Cina.

Modernità a prezzi modici
Per contro, la modernità costa ancora cifre abbordabilissime: 2 euro per un taxi, 5-10 euro per un pasto abbondante, club esclusivi (il leggendario Bar Rouge, nel Bund, con vista notturna sullo skyline) a prezzi per noi impensabili. Si può dormire fra le nuvole al Park Hyatt Hotel, in cima allo Shanghai World Financial Center, 492 metri (mezzo chilometro!), un grattacielo a forma di apribottiglie che domina la città, e poi ci si può im-mergere nella notte, nei luoghi frequentati dagli stranieri (gli “expats”), dai nuovi ricchi, dalla gente alla moda E poi il cibo, decisamente lontano dalla pasta e dalla pizza , ma con bel po’ di stranezze da assaggiare, e non stiamo parlando degli spiedini di scarafaggi fritti, offerti in tutti gli angoli dei mercati di strada. Parliamo della nouvelle cuisine (eredità della concessione francese) fusa con quella cinese tradizionale, una mescolanza di sapori assolutamente singolare, senza rinunciare ai classici ravioli al vapore ed alle zuppe di noodle fatti a mano. Per chi ama l’arte Shanghai offre il Moca, il Museo d’arte contemporanea, oppure il distretto artistico di Moganshan Road. E poi, come in tutte le metropoli che si rispettino, mercati delle pulci, del thè e degli insetti, che a volte sono più intriganti e caratteristici delle classiche pagode con i vari Buddha d’oro, che difficilmente raggiungono il livello dell’opera d’arte.

Gli italiani: “Al massino 4-5 anni”
Gli italiani che risiedono a Shanghai dicono che si può stare al massimo 4-5 anni, il tempo di fare gli affari. Di più non si resiste. Ancora troppo diverse le usanze e le abitudini. Nottambuli e festaioli, i nostri connazionali hanno esportato la moda dell’happy hour, ma non sopportano di pranzare alle 12 e cenare alle 18. Come mal si adattano alla formale liturgia cinese dei saluti e dei salamelecchi, oltre che alla difficoltà di esternare i sentimenti. Ma sono, alla fin fine, il piccolo prezzo da pagare per vivere nel futuro. (M.I.)