di Sandro Calice IL GIOIELLINO
di Andrea Molaioli. Francia, Italia 2011 (BIM)
Toni Servillo, Remo Girone, Sarah Felberbaum, Fausto Maria Sciarappa, Lino Guanciale, Vanessa Compagnucci, Lisa Galantini, Renato Carpentieri, Gianna Paola Scaffidi.
A volte fanno più danni, producono più male, le persone inadeguate al potere che si trovano a gestire piuttosto che i criminali veri. Ce lo insegna il crack Parmalat, che diventa il paradigma di tutti i “gioiellini” che hanno rovinato la vita di molti.
Amanzio Rastelli (Girone) ha preso l’azienda di famiglia, la Leda, che era un salumificio e ne ha fatto un colosso del settore agro-alimentare con filiali in tutto il mondo, un gioiellino. Rastelli è un imprenditore vecchio stampo, attaccato al suo 51% per avere sempre il controllo, alfiere del made in Italy, strenuo difensore del core business della Leda, il latte (“perché durante la guerra ho visto la gente rinunciare a tutto, ma mai al latte”), e chiaramente paladino della famiglia. Così ai posti di comando della Leda ci sono il figlio, la nipote e alcuni ragionieri, il cui arcigno capo è Ernesto Botta (Servillo). Quasi incredibile che la Leda sia arrivata dove si trova, nonostante più di qualche “aiutino” dalla politica. E infatti non c’è da crederci. I soldi non ci sono. Ernestino Botta però quell’azienda la sente anche un po’ sua e ha sempre una soluzione: prima la Borsa, poi i bilanci falsi, poi addrittura il bianchetto per creare patrimoni inesistenti. Non può durare. E non dura.
E’ un ritorno impegnativo quello di Andrea Molaioli, che deve soddisfare le alte aspettative inevitabilmente create dal suo premiatissimo esordio con “La ragazza del lago”. E possiamo serenamente dire che “Il gioiellino” è un film riuscito. Non parla solo del crack Parmalat (al di là del marchio e dei nomi inventati) nel senso che l’intento del regista e degli sceneggiatori era quello di raccontare la mostruosa normalità dietro ai tanti crimini finanziari della nostra epoca, di mostrare persone mediocri che vivono nell’ottuso culto del lavoro e dell’azienda, così sentimentalmente e moralmente diseducate, sotto l’ipocrisia delle brave persone della provincia italiana, che commettono nefandezze quasi senza rendersi conto delle conseguenze. E il film è riuscito, grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi e alla musica di Teho Teardo, perché rende esattamente questa idea. Nonostante la dimensione “mondiale” dell’impresa e del racconto, viene fuori quasi un pezzo teatrale, ovattato, soffocante a tratti, dove la bravura dei protagonisti tiene teso il filo dall’inizio alla fine, con poca o nulla rappresentazione del dramma che le loro scelte provocano al di fuori delle loro ricchissime e tristi vite, perché sono loro che la percezione non ce l’hanno. Non aspettatevi un film denuncia, nel senso di una ricostruzione di cronaca. Ma non per questo vi lascerà meno turbati.