di Nello Di Costanzo
Esiste un luogo unico al mondo dove i morti svelano il futuro, dispensano consigli e addirittura danno anche i numeri al lotto. E’ il cimitero delle Fontanelle, che si trova nel cuore di Napoli, nel famoso rione Sanità, il quartiere noto per aver dato i natali a Totò e per essere stato la location di alcuni film di grande successo come “L’oro di Napoli” e “Ieri, oggi, domani”, entrambi di Vittorio De Sica. Furono i greci ad avere l’idea di ricavare una necropoli pagana da grandi cavità di tufo, in seguito trasformate in un vero e proprio camposanto cristiano per dare la possibilità di degna sepoltura anche ai meno abbienti. Oggi il cimitero delle Fontanelle raccoglie oltre 50mila resti.
La peste del 1656
Nell’estate del 1656 Napoli fu messa in ginocchio da una terribile epidemia che fece più di 350mila morti: la peste. Cadaveri ammassati lungo le strade ai quali si dava fuoco. Dovunque l’odore di carne umana che bruciava: uno spettacolo apocalittico. Fu allora che si decise di utilizzare le cave tufacee del rione Sanità per “depositare” le salme. Successivamente nel cimitero furono portati anche i corpi delle persone decedute per il colera del 1836.
Il grande imbroglio
Nel ‘700 e nell’800 molti nobili chiedevano di essere tumulati nelle chiese e per ottenere questo privilegio pagavano fior di quattrini. Solo che nei templi napoletani non c’era spazio per tutti e allora scattava l’imbroglio. Di giorno si celebrava il funerale e di notte i becchini provvedevano a portare il cadavere alle Fontanelle. Con buona pace dei parenti che credevano il loro caro sepolto in chiesa.
Le ossa in strada
Tanti, troppi corpi nelle visceri di tufo della Sanità: qualcosa doveva pur accadere per regolamentare i “depositi”. E infatti un giorno le macabre cave si allagarono in seguito a violenti temporali e all’assenza di fogne e le ossa dei defunti risalirono in strada. Fu allora che si decise di disporre le ossa con un minimo di ordine, di costruire un’altare e di riconoscere ufficialmente il luogo come ossario.
Le anime del purgatorio
Per i napoletani il cimitero delle Fontanelle era un luogo sacro, dove si ricevevano le grazie. Non la pensava però così l’ex cardinale di Napoli Corrado Ursi che nel 1969 chiuse l’ossario per eccessiva credulità popolare. Già, perché i teschi (le napoletanissime “capuzzelle”) davano consigli e perfino i numeri al lotto. Quello che avveniva era un autentico culto, a metà tra sacro e profano: si sceglieva il teschio da adorare, lo si puliva, gli si accendeva lumini e gli si rivolgeva preghiere. Se l’anima del defunto scelto rispondeva (attraverso il sogno), esortava la persona a pregare di più per alleviare le sue pene in modo da passare dal purgatorio al paradiso. A questo punto il devoto, oltre a recitare più orazioni, costruiva al teschio anche un piccolo altare, lo abbelliva e chiedeva la grazia: se si avverava, la “capuzzella” iniziava a sudare e veniva messa in un loculo o in una teca di vetro, altrimenti la si rimuoveva dall’altarino per riporla di nuovo insieme a tutte le altre.
La leggenda del “capitano”
Il teschio più conosciuto del cimitero delle Fontanelle è senza dubbio quello del “capitano”. E’ posto in un’ampolla di vetro e a vederlo fa impressione. Ma non c’è da aver paura. Per tutti, infatti, il “capitano” è un’anima generosa, che ha aiutato tantissime persone. Ecco, quindi, spiegato il perché la sua “capuzzella” si trova custodita nella teca: per grazia ricevuta. Intorno a questo spirito esistono diverse leggende o, chissà, storie realmente accadute. Come quella che riguarda una giovane coppia in procinto di sposarsi. Ebbene, la donna aveva una grande venerazione per il “capitano”, il futuro marito no. Un giorno si recarono al cimitero delle Fontanelle e il giovane per dimostrare alla sua fidanzata che il “capitano” altro non era che un innocuo e vecchio teschio senza alcun potere gli infilò un bastone nella cavità oculare e lo invitò con una profonda risata al suo matrimonio. Il giorno delle nozze tra gli invitati c’era un carabiniere, lo sposo gli si avvicinò domandandogli chi fosse. L’uomo gli rispose che era stato invitato proprio da lui, che tra l’altro gli aveva fatto anche molto male mettendogli il bastone nell’occhio. Poi il militare si sbottonò la divisa e invece del corpo apparvero solo le ossa dello scheletro. Davanti a questa scena gli sposi morirono per il forte spavento e la leggenda vuole che i loro resti siano ancora oggi conservati proprio nel cimitero delle Fontanelle, nella prima cava, sotto la statua di don Gaetano Barbati, un prete fondatore di un’opera pia per il suffragio delle “anime in pena”.
Il “monacone”
Nel cimitero delle Fontanelle si trovano i resti di persone povere, ma anche ricche. Tutti insieme senza storia e senza nomi, proprio secondo i dettami de ‘A livella di Totò dove davanti alla morte non esistono più livelli sociali, siamo tutti uguali. Tranne che per due: il conte Filippo Carafa e sua moglie. Si distinguono facilmente perché i loro scheletri sono rimasti intatti, vestiti e depositati nella bara. Eppoi, c’è lui: il “monacone”. Si tratta di San Vincenzo Ferrer ed è rappresentato da una statua, che è stata decapitata. La testa non c’è più, al suo posto un teschio. Una cosa che fa accapponare la pelle e che rende ancora più tetro l’ambiente.
L’iniziazione dei camorristi
Per anni una delle cave che formano il cimitero delle Fontanelle, quella denominata “Tribunale”, è stata utilizzata dalla criminalità organizzata per “battezzare” i nuovi camorristi. Ma lì si tenevano, e forse secondo la vox populi si tengono ancora, anche le messe nere. Certo, il cimitero è chiuso da anni, ma c’è chi continua ad entrarvi: balordi, camorristi, ma anche comuni cittadini che chiedono una grazia alle “anime del purgatorio”. Sono i nostalgici di una Napoli esoterica, misteriosa che ancora resiste all’inesorabile scorrere del tempo.