Perché dopo Auschwitz è accaduto ancora?

'Un giorno vivrò anch'io - Il genocidio del Rwanda raccontato ai giovani' di Yolande Mukagasana, edizioni la meridiana

Scrive Gabriele Nissim nella prefazione al libro: lo scenario descritto dall’autrice “è lo stesso scenario sconvolgente descritto da Primo Levi nella sua prigionia ad Auschwitz. I nazisti non provavano rimorso nella loro violenza gratuita contro gli ebrei perché li consideravano alla stregua di animali… Ma l’osservazione più inquietante è la constatazione a cui arriva Yolande Mukagasana che il genocidio veniva considerato da parte degli Hutu come un dovere civico da adempiere fino in fondo e da cui dipendeva la loro felicità e il benessere della gente”.

“Le cose peggiori sono state concepite dagli uomini in nome della ricerca del bene universale” scrive Vasily Grosmann, testimone in Russia dello sterminio degli ebrei e dei gulag stalinisti. Si potrebbe continuare. Ogni volta che il genocidio entra con forza e violenza nella storia, il processo di disumanizzazione si ripete. Si uccide un uomo o una donna o un bambino non perché nemico ma perché animale. “Scarafaggi” erano per i Tusti gli Hutu. Non accadrà più. “Mai più Auschwitz!” si è gridato. Così non è stato. Così non è.

Entrare nei meccanismi che portarono ai fatti del ’94 è il tentativo che Yolande fa in questo libro, così come altri hanno fatto per la Shoah, per i gulag, per gli eccidi di massa. Raccontare, descrivere perché soprattutto i ragazzi, i giovani sappiano. "Tra gli Hutu e i Tutsi non c’è mai stata differenza. Ma nel 1994 io donna Tutsi mi sono seduta davanti alle rovine della mia casa. Il primo vicino non c’era più, era stato assassinato dagli Hutu. Il secondo sterminato con la sua famiglia. Ho visto la stessa cosa anche per il terzo vicino. Ho scritto questo libro perché non accada più". Così scrive l'autrice, ex infermiera Tutsi sopravvissuta al genocidio in cui perse la famiglia- compresi marito e tre figli- è candidata al Nobel per la Pace dei Giusti del Rwanda assieme a Pierantonio Costa e Zura Karuhimbi



Da "Un giorno vivrò anch'io" di Yolande Mukagasana

Il genocidio come dovere civico
In generale i nostri assassini erano nostri amici, nostri fratelli, istruttori dei nostri figli, nostri dirigenti, nostri medici, nostri vicini, nostre guardie, nostri dipendenti, nostri panettieri, droghieri di quartiere e anche parroci. All’inizio alcuni Tutsi si erano accorti che i loro vicini cominciavano ad aggredirli e sono corsi a sporgere denuncia e chiedere soccorso alle autorità. La risposta delle autorità è stata: “Rimanete a casa vostra se volete morire in dignità, altrimenti dovunque andrete troverete un Hutu che vi ucciderà perché è suo dovere farlo”.
Lo sterminio dei Tutsi, in quel momento, era un dovere in quanto l’unico lavoro per tutta la popolazione era di ammazzare i Tutsi senza nessuna distinzione: dall’anziano al bambino fino al malato sul letto dell’ospedale. Era un dovere civico quello di trovare una volta per tutte la soluzione al “problema Tutsi “: sterminarli. Certamente, un problema immaginario. Ogni attività era sospesa. Timi quanti dovevano rispondere al richiamo dello sterminio, perfino i ragazzini ancora minorenni ma già capaci di maneggiare il machete. Qualche Hutu rifiutò di partecipare al massacro ma senza farlo vedere, altrimenti rischiava anch’egli la morte. Per esempio, la ragazza che mi ha aiutata a nascondermi, che come mestiere produceva e vendeva succo di frutta, mi lasciava nascosta sotto il lavello e andava a vendere succo di frutta in barriera per evitare ogni sospetto nei suoi confronti. Il proprietario della casa in cui abitava, che viveva lì accanto, veniva sempre a controllare e le diceva che non voleva i Tutsi nella sua proprietà. Ogni Hutu che si rispettava era chiamato a fermare e uccidere i Tutsi. Anche i ragazzini erano chiamati a cercare i nascondigli dei Tutsi. Ognuno aveva un suo ruolo nel massacro... anche i cani che, a volte, venivano utilizzati per la ricerca di Tutsi, proprio perché in quel periodo si nutrivano di carne umana.
Per questo mi sento di fare i complimenti all’Hutu che ha resistito all’ideologia del genocidio, e lo farà sempre. Non c’è stato da nessuna parte in tutto in Rwanda un gruppo di resistenza Hutu contro il massacro perché era impossibile. L’iniziativa era personale e molto discreta per il fatto che se un Hutu veniva beccato nel tentativo di nascondere o salvare un Tutsi veniva punito con la morte. Gli assassini non erano necessariamente militari ma si trattava anche di tante altre persone appartenenti all’etnia Hutu assistite da milizia formata dal potere centrale e giovani appartenenti a partiti politici di opposizione. Si trattava soprattutto di Hutu che volevano appropriarsi del beni dei Tutsi uccisi, di ragazzi che giravano per strada con l’intenzione di stuprare una bella donna e per ii solo piacere di umiliarla o di qualche uomo che in precedenza l’aveva corteggiata ma senza riuscire a portarla a letto. Erano anche impiegati che aspiravano ai beni del loro capo Tutsi. Erano amici, a volte figli, che uccidevano le loro madri perché erano Tutsi o madri che uccidevano i loro figli perché il loro marito era Tutsi e di conseguenza lo erano anche loro. Quello che rimane inimmaginabile è che non soltanto i carnefici parlavano la stessa lingua delle vittime ma condividevano la stessa cultura, pregavano lo stesso Dio, avevano in comune le stesse tradizioni e, talvolta, appartenevano allo stesso partito politico. Abitavano nello stesso villaggio o quartiere perfino nella stessa casa.
Le donne hanno avuto un ruolo non di poco conto nel genocidio. Hanno ucciso anche loro uomini, bambini e altre donne. Nel mese di aprile del 1994 ho visto una vicina, Espérance, vestita da militare, che portava un’arma da fuoco con una catena di pallottole intorno al colto. Ora si trova in prigione perché condannata per crimine di genocidio. Tuttavia, quando l’ho incontrata, durante una visita in una prigione, ha subito negato tutto. Tutti però sapevano che non avrebbe resistito a lungo.