di Sandro Calice
“Matteo, romano, appassionato di cinema da sempre”. Si presenta così sul suo myspace Matteo Rovere, 25 anni, regista in concorso all’ultimo Festival del Film di Roma con “Un gioco da ragazze”, il suo primo film, prodotto da Colorado Film per Raicinema, tratto dal romanzo omonimo di Andrea Cotti e sceneggiato insieme a Teresa Ciabatti e Sandrone Dazieri.
Il film racconta una storia di bullismo al femminile, ma sarebbe riduttivo ridurlo a questo. E’ uscito nelle sale il 7 novembre.
“Sono contento delle reazioni del pubblico”, dice Rovere, che ama Jacques Audiard, Jim Jarmusch, Terrence Malick e Gregg Araki e che nel 2007 ha vinto un Nastro d’Argento per il cortometraggio “Homo Homini Lupus", “meno contento del fatto che ci si sia concentrati su questioni ‘di forma’, le polemiche sul divieto ai minori, ad esempio, e non si sia aperto un dibattito sui contenuti, che credo pongano questioni su cui tutti dovrebbero interrogarsi”.
Parliamone allora. Il giudizio che emerge sul mondo degli adolescenti e su “istituzioni” come famiglia e scuola è impietoso. E’ davvero così?
“Secondo me la realtà che racconto esiste. Non è maggioritaria, ma non si può nemmeno nascondere la polvere sotto il tappeto. L’80% degli adolescenti che hanno visto il film riconoscono il mondo che vi è raccontato. Io ho cercato di suonare un campanello d’allarme sul fatto che i genitori, la società degli adulti, le istituzioni non si rendono conto che stanno crescendo una generazione di adolescenti apatica, emotivamente fredda e distante dalle emozioni più sane”.
Nel film non c’è un personaggio con un briciolo di buon senso, nessuna speranza.
“In realtà il personaggio di Livia, che all’inizio è affascinata dal gruppo delle ‘cattive’, alla fine cerca di distaccarsene. Ma certo ho voluto evidenziare il fatto che la protagonista vive in una società che non solo l’ha costruita ed alimentata, ma che poi non è in grado di fare nulla per redimerla o punirla quando sbaglia”.
La società, appunto. Le ‘cattive’ sono tutte ricche. Volevi eliminare l’alibi della classe sociale? La scuola, poi. Privata, rigorosa, tutti col grembiule, ma pare non basti.
"La scelta dell’ambientazione alto-borghese è per dire che non si po’ sempre imputare il ‘male’ a un disagio sociale. E mi stupisce che si critichi questa scelta, come se il delitto o la patologia sociale o l’anestesia emotiva fossero appannaggio solo di classi più modeste. Le ragazze che racconto hanno tutto, vivono in famiglie che teoricamente le ascoltano, frequentano, appunto, una scuola privata, controllata, ma nonostante questo diventano quello che vediamo”.
“Un gioco da ragazze” è tratto da un romanzo, ma Matteo Rovere, per sua stessa ammissione, è anagraficamente vicinissimo alle protagoniste del film, che quindi è frutto anche di conoscenze ed esperienze personali. E l’inchiesta che Televideo presenta in queste pagine dimostra che la realtà forse è anche peggio.