di Francesco Chyurlia
I destini del mondo sono legati ad una G. Una G seguita da un numero: 7, 8, 10, 15 oppure 20. Una formula che i grandi Paesi utilizzano per condividere in buona compagnia le responsabilità di decisioni difficili, spesso impopolari per le popolazioni della terra. Ma sono realmente utili? Oppure le grandi scelte le prendono, prima o dopo questi mega vertici, due o al massimo tre potenze? Lo chiediamo a uno dei più qualificati saggisti e studiosi sulle tematiche dell’economia globale, l’economista dell’Istud, Maurizio Guandalini (nella foto).
“Lo spirito di incontri come il G20 è da conservare. E’ naturale che questi summit mondiali - che raccolgono i 20 paesi (19 più l’Unione europea) industrializzati, in rappresentanza dei due terzi della popolazione mondiale e il 90 per cento del prodotto interno lordo – sono e rimangono atti simbolici”.
Vuol dire che servono per ratificare decisioni già prese?
“Non proprio. La durata dell’incontro è perà ristretta, gli interventi contingentati e le cose da dire sempre tante. Alla fine si arriva a sintesi generiche che salvano i principi ispiratori e rimandano il ‘corpo’ delle questioni ad appuntamenti futuri”.
E il G20 di Washington non fa eccezione…
“Questo G20 ricorda la sua nascita, il suo primo appuntamento. Nel 1999 dopo una successione di crisi finanziarie, dal Giappone alla Russia fino all’Argentina, si creò questo mega-gruppo di paesi per far in modo di evitare e limitare eventuali crack economici. Poi la storia ha dimostrato che non è andata proprio così. Nessuno ha poteri salvifici e nemmeno premonitori. Le crisi arrivano per una combinazione di fattori e spesso prendono alla sprovvista i paesi interessati. Se questo è il risultato, un po’ magro per la verità, ci chiediamo perché farli”.
Non servono a nulla?
“Intanto è giusto che ci sia una unità di crisi che raccolga il maggior numero di paesi. Il G8 è antistorico. Il baricentro dell’economia mondiale si è spostato verso nazioni come la Cina e l’India che muovono ingenti masse di denaro. Senza dimenticare i paesi dell’Islam: lì la finanza ha assunto un ruolo di primaria importanza tanto da condizionare gli investimenti dell’intero pianeta. Se non ci fossero stati i fondi sovrani provenienti dai paesi arabi la situazione delle banche americane sarebbe, di molto, drammatica”.
Ma si può trovare una mediazione tra 20 istanze, probabilmente diverse?
“Il G20 è la fotografia di quello che è oggi la geoeconomia e la geopolitica mondiale. Partiamo da alcuni dati di fatto: le varie aree regionali di scambio economico e commerciale nel mondo hanno progressivamente fallito. Dal Nafta al Mercosur, fino all’Alca o alle zone dell’Asia e all’improbabile nascita dell’Unione del Mediterraneo sono state esperienze, alcune in corso, che non hanno dato luogo ad una vera unione politica, legislativa e economica tra stati diversi. La stessa Unione Europea rappresenta un qualcosa d’incompiuto”.
Quali sono i rischi che si corrono con un summit di questa portata?
“Il rischio è che il G20 prenda le sembianze dell’Onu. E’ una brutta piega, ne siamo convinti tutti, ma la malattia principale di questi pachidermici consessi mondiali è il conflitto di interessi tra i diversi paesi. E’ il motivo per cui organismi come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) cammina a rilento senza mai occuparsi nel concreto delle modalità dello sviluppo economico mondiale. E questo è l’esempio che trascurare il merito delle questioni, senza prendere decisioni incisive, fa sì che ogni paese tiri la coperta a proprio vantaggio senza pensare all’interesse collettivo”.
A quali Paesi si riferisce?
“Parlare di clausole sociali o direttive ambientali ai paesi in via di sviluppo che stanno correndo, vedi la Cina, è immediato che porranno il veto dicendo che non è il luogo adatto di discussione per questi temi. Come fanno a discutere di sfruttamento di manodopera minorile o di inquinamento dei fumi nell’aria se proprio queste maglie larghe degli ordinamenti legislativi sono il loro motore che li rende competitivi sui mercati internazionali? I summit mondiali, come il G20 sono quindi soprattutto l’incontro di tanti interessi: le paure di un paese in recessione non sono le paure che ha un paese in via di sviluppo. Ma il vedersi, parlarsi, dialogare, comunicare rimangono le ricette vincenti per superare anche i momenti con maggiori frizioni”.
Il G20 può diventare una nuova Bretton Woods?
“Dal 1 al 22 luglio del 1944, 44 nazioni, anche con contrasti robusti, si accordarono per rimettere in moto l’economia mondiale. Decisero regole per le relazioni commerciali e finanziarie, stabilizzarono il tasso di cambio (con il dollaro moneta di riferimento), il Fondo Monetario Internazionale aveva il compito di equilibrare gli scompensi causati dai pagamenti internazionali. Successivamente nacque la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e nel 1947 il GATT che a fianco della Banca Mondiale e del FMI, aveva il compito di guidare il commercio internazionale. Con il sistema creato a Bretton Woods siamo arrivati fino ad oggi. Ad una crisi finanziaria mondiale con il Re Nudo. Fondo Monetario, Banca Mondiale, WTO c’erano, se hanno visto non sentivano. Se sentivano non hanno visto. Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, che non indovina una ricetta economica nel mondo. Ha sbagliato con i paesi africani, ha sbagliato con la Russia (ricordate il piano di privatizzazione in 100 giorni?) e nei Paesi dell’Est, ha sbagliato ovunque nel mondo esportando la stessa ricetta economica valida per tutti, dimenticando le caratteristiche, l’originalità, la storia che divide le nazioni. E’ quindi naturale che il G20 butta le basi per dire che quello che c’è stato fino ad ora è funzionato male, malissimo e va cambiato”.
La discussione sarà quindi su come cambiare.
“Maggiori controlli sul sistema finanziario mondiale vanno presi. Ma anche qui per ora c’è da fare affidamento solo agli strumenti nazionali conosciuti. Probabilmente in futuro vanno riviste le funzioni di Fondo Monetario, Banca Mondiale e WTO. Unificandoli? Può darsi. Certamente perché funzionino, ora e domani, occorre che tutti i paesi rinuncino a dei poteri nazionali e trasferiscano a questi organismi dei poteri reali di controllo. Non esiste un super partes, ma il tentativo di creare riferimenti certi di controllo va sostenuto”.
Che fare contro una crisi come quella attuale che proviene dalle banche?
“E’ importante mettere in galera quei manager o quei banchieri che hanno sparpagliato nel mondo della spazzatura finanziaria lavorando sulla pelle delle persone più deboli: ma la forza in futuro sta nel prevenire. Nella prevenzione va recuperato il valore, lo spirito di incontri internazionali come il G20. Perché proprio nella prevenzione c’è il buco nero. E stavolta c’è da farlo veramente perché la paura ha avuto la forza di uno tsunami: dall’oggi al domani il mondo in ginocchio. Far comprendere ai paesi in via di sviluppo che è un investimento stabilire delle regole comuni. Avviare una riflessione non ideologica sul funzionamento dei nostri mercati finanziari elaborando delle norme sanzionatorie pesanti per le aziende che non le rispettano”.
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