Chiediamo al regista, che in questo caso è anche autore della riduzione teatrale, perché proprio i “Demoni”?
Perché no. Mi interessava soprattutto l’aspetto politico del testo, e i Demoni sono sicuramente il testo più politico e attuale di Dostoevskij, in cui lui prefigura già tutti gli sviluppi nella Russia di inizio ‘900, l’avvento della dittatura comunista.
In cosa consiste la modernità del testo?
Il vero protagonista del romanzo è Stavrogin, e rappresenta il vuoto e l’indifferenza che sono il male anche del nostro tempo. Stavrogin può essere tutto e niente, non può amare veramente, non può odiare veramente, è interiormente vuoto e pericolosamente indifferente. Soffre gli stessi problemi che ci affliggono oggi: la mancanza di orientamento, cosa veramente sentire, cosa veramente fare. Abbiamo perso i nostri valori e le nostre emozioni.
Quali sono i demoni di oggi?
Sono gli stessi del romanzo. Un egoismo sfrenato, una leggerezza nel rispetto degli altri, il delirio di onnipotenza che ci fa credere di poter far tutto, violando la natura e i diritti altrui, un’ inerzia totale nel vedere i problemi seri. I demoni sono sempre gli stessi. Chiaramente ogni Paese ha i suoi sintomi specifici di malattia, ma si tratta solo di variazioni regionali perché in fondo sono sempre le stesse cose.
La sua versione quasi integrale del romanzo è una sfida al teatro convenzionale e anche ai tempi compulsivi a cui siamo abituati.
Non è stato sempre così. Quando i Greci hanno inventato il teatro hanno pensato a “giornate teatrali” e non solo allo spettacolo. La trilogia tragica durava dalla mattina alla sera. Questo non è estraneo al teatro. Il teatro tende alla totalità, vuole coinvolgere lo spettatore, tirarlo dentro l’azione, cambiarlo.
Come dovrebbe vivere lo spettacolo il pubblico?
Il pubblico viene, è disposto a sacrificare l’intera giornata all’evento. Se gli attori e i registi non sono stupidi qualcosa accade. Tutti i luoghi che abbiamo toccato con la nostra tournée, in Italia e all’estero, hanno registrato il tutto esaurito e standing ovation ovunque, con il pubblico in piedi che applaudiva. Io so con certezza che gran parte di quell’applauso è per loro, per il pubblico stesso, per la pazienza e l’attenzione che ha saputo mantenere per un periodo così lungo. Gli spettatori si accorgono di avere creato una comunità, tra di loro e con gli attori. Questo ci fa capire che l’esperimento ha funzionato. Il nostro spettacolo registra sempre il tutto esaurito.
Allora il teatro “tutti insieme” è possibile?
Questa è la meta del teatro. Creare questa unione, questa comunità. La separazione tra attori e pubblico è un’ occasione di teatro mancata.
Come ha preparato gli attori per questa maratona?
Il venerdì devono andare a letto molto presto. Durante le pause si riposano e preparano le forze, perché è molto estenuante passare 12 ore concentrati sulle diverse parti. Quando salgono sul palcoscenico sono lì, presenti, con forza, e danno il massimo della loro professionalità e della loro energia.
Che tipo di recitazione ha chiesto agli attori?
Naturalmente una recitazione realista, quasi cinematografica, perché si addice a questo romanzo . Non ci sono interpretazioni auliche, poetiche, o caricate . Gli attori devono “essere” e non “recitare” il personaggio. Nelle diverse rappresentazioni in Italia e all’estero ha notato reazioni diverse nel pubblico? No. Il comportamento è stato sempre lo stesso. I viennesi hanno riso in un determinato punto, i newyorchesi in un altro, i napoletani in un altro ancora. Ma tutti seguivano con estrema concentrazione. Si poteva sentire cadere un ago per terra. E questo è stato un grande regalo.
Il suo è un teatro di nicchia. Qual è il suo rapporto con i mezzi di massa come la Televisione? Ha mai pensato a questa sfida?
No. Sarebbe un tradimento. Il nostro valore aggiunto è la presenza diretta degli attori . Questa immediatezza si distrugge con la televisione.
Lei ha dichiarato: “Vivere in Italia è bellissimo, ma lavorarci è un incubo”. Perché?
Gli italiani hanno la tendenza a riempirsi di parole, ma poi non le mantengono nei fatti. Per un prussiano come me è un incubo. Tutte le esperienze di lavoro in Italia sono state catastrofiche.
Progetti futuri?
Un Re Lear con Klaus Maria Brandauer per il Berliner Ensemble. Poi opere liriche, i lirici sono più precisi: Il naso di Shostakovich con Metzmacher, e a Strasburgo il Machbeth di Verdi con Riccardo Muti. C. T.