"My story"


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La fiaba tragica di Marilyn

Nelle librerie, per la prima volta tradotta in italiano ed edito da Donzelli, l’autobiografia della Monroe h

di Rita Piccolini

Nelle librerie, per la prima volta tradotta in italiano, l’autobiografia di Marilyn Monroe ”My Story”. Fu nel 1954, quando la stella della giovane Norma Jean Baker cominciava a rifulgere con sempre maggiore brillantezza nel firmamento di Hollywood , che il suo agente, Charles Feldman , contattò lo sceneggiatore Ben Hectht (autore tra l’altro di Prima Pagina, Scarface, Notorius), per incaricarlo di scrivere la prima autobiografia dell’attrice.

Per alcuni mesi Marilyn e il suo “ghostwriter “ si incontrarono e dalla loro collaborazione nacque una confessione autentica, senza filtri, triste fin dall’esordio e il contrario di quella che voleva essere, soltanto un’operazione commerciale per una diva in ascesa.

“La mia storia”, edito da Donzelli, con la prefazione di Joshua Greene, è arricchito da 47 meravigliose foto esclusive tratte dall’archivio del grande fotografo Milton H. Greene, che fu anche amico e confidente della star, e il cui obiettivo riuscì a cogliere intensi momenti di autenticità anche sui set cinematografici, oltre che nel privato.

Una fiaba tragica: è un ossimoro. Normalmente nelle fiabe c’è il lieto fine. In questa no. L’azione drammatica si dipana fin dall’inizio, nell’infanzia negata di una bambina che passava dall’orfanotrofio all’affidamento a famiglie (ben nove diverse), che accettavano di prendersi cura di lei solo per pochi dollari con cui arrotondare il misero bilancio familiare. E poi la mamma che l’abbandonava per povertà per poi morire in un ospedale psichiatrico; la solitudine; la tristezza rassegnata e composta di chi non si ribella per non peggiorare la propria già terribile situazione, fino all’adolescenza abusata e alla presa di coscienza contraddittoria della propria prorompente bellezza. Ma una bellezza che non regala mai gioia, tranne che in rari momenti di spensieratezza, e che da subito viene percepita come il mezzo per sopravvivere e poi vivere bene, anzi per affermarsi nel mondo di Hollywood, dove l’apparenza conta più di qualsiasi altra cosa. Una bellezza senza compiacimento, di cui Marilyn adolescente prese semplicemente atto: tutti la guardavano, tutti la notavano, prima a scuola, poi tra le migliaia di belle ragazze che affollavano gli studios. Fu lì che nacque il sogno di recitare, affinché tutti si accorgessero di lei e cominciassero finalmente ad amarla. E infatti gli occhi di Marilyn appaiono sempre sognanti e malinconici, anche quando sorride, nonostante le ciglia finte e la bocca rosso fuoco a forma di cuore. Molti attribuirono questa aria trasognata e un po’ assente alla sua miopia. Un’immagine con cui lei stessa giocò. Ma ora, con il senno del poi, si sa come interpretarla. Dietro a quello sguardo si celava una donna triste, quasi consapevole fin dall’inizio di quella che sarebbe stata la sua fine. Marilyn sognava ad occhi aperti fin da quando era bambina, fino a quando si rese conto, giovanissima, di essere una sirena. “Perché fossi una sirena non ne avevo la più pallida idea- leggiamo nel libro- non pensavo mai al sesso. Non volevo essere baciata…La verità era che con tutto il rossetto, il mascara e le mie curve precoci ero sexy quanto un fossile. Tuttavia sembrava che facessi effetto sulla gente”. A leggere queste parole viene in mente un’altra rara fiaba triste, quella della Sirenetta di Andersen, che si trasforma in spuma del mare per l’amore non corrisposto del principe. Marilyn scelse di dissolversi nel vento alimentando il suo mito anche con il misterioso suicidio nel 1962, a soli 36 anni. “La mia storia” si interrompe prima, non racconta i matrimoni falliti, gli amori negati, l’incontro con altri due tragici miti del secolo scorso, John e Bob Kennedy. Il racconto si ferma al matrimonio con Joe Di Maggio e al tour in Corea in visita alle truppe americane. C’è tuttavia una frase sconvolgente a pag 93, quasi una premonizione. Vittima dell’ennesimo ricatto sessuale Marilyn si rifugia piangendo nella sua automobile e afferma: ”Sì, avevo qualcosa di speciale e sapevo cos’era. Ero il tipo di ragazza che trovano morta in una camera da letto con un flacone vuoto di sonniferi in mano".

Quello che colpisce nella narrazione dei primi anni della sua vita è sempre la sensibilità fragile, resa ancora più tragica dalla sua abbagliante bellezza. ”La gente aveva l’abitudine di guardarmi come se fossi una sorta di specchio invece che una persona- scrive -non vedeva me, vedeva i propri pensieri osceni. Poi si ripuliva definendo me l’oscena”. Una fragilità che la fece soffrire e che fece soffrire. Vengono in mente le belle pagine autobiografiche scritte da un’altra grande del cinema, Simone Signoret, che racconta nella “Nostalgia non è più quella di un tempo”, come vide il suo adorato compagno Yves Montand, innamorarsi perdutamente di lei mentre giravano un film . Simone non esprime risentimento nei confronti della fragile Marilyn, racconta solo di una volta in cui erano insieme dal parrucchiere: a lei toccava tingersi i capelli di un biondo cenere un po’ spento, alla Monroe, seduta accanto, era destinato l’appariscente e glamour biondo platino “ perché erano questi i diversi ruoli che la vita ci assegnava in quel momento”. La testa bionda di Marilyn è ancora un’icona del nostro tempo.

E’ attesa nelle prossime settimane, per Feltrinelli, una raccolta di testi inediti di Marilyn: poesie, pagine di diario, lettere e appunti. Alcuni testi sono scritti a mano e saranno riprodotti nel volume.