di Rita PiccoliniDomenica scorsa si è chiuso il Tour de France, a cui poche settimane prima aveva ceduto il posto il Giro d’Italia. Tra la primavera e l’estate, finita la stagione calcistica, l’attenzione degli sportivi è tutta per uno sport antico, che ci riporta al secolo scorso, e al fascino dello scontro tra l’uomo e la natura: le montagne, le impervie salite, le pianure sterminate, le discese con il cuore in gola e senza freni. E le smorfie per la fatica o addirittura per il dolore fisico di quei piccoli uomini, il sudore, lo sforzo sovraumano, le loro meravigliose biciclette. In un libro: “Eroi, pirati e altre storie su due ruote” a cura di Simone Barillari, per la Bur, (12,00 euro), i più begli articoli di grandi giornalisti sportivi e non solo, e di scrittori importanti la cui prosa preziosa è stata al servizio della descrizione di tappe ciclistiche epiche e di indimenticabili campioni.
Che emozione, per chi non ricorda per ragioni anagrafiche il giorno della morte di Fausto Coppi, leggere l’articolo che Giorgio Vergani scrisse per “Il Corriere della sera” il 2 gennaio del 1960: ”Il grande airone ha chiuso le ali. Quante volte Fausto Coppi evocò in noi l’immagine di un grande airone lanciato in volo con il battito delle lunghe ali e sfiorare valli e monti, spiagge e nevai? Fortissimo e fragile al tempo stesso…”. Forse la stessa emozione per chi invece ricorda quell’articolo e il dolore che poeticamente trasmetteva. Si ritrova tutto in queste pagine: da Maurizio Garin, che vinse il primo Tour de France e che al termine di una tappa massacrante cenò con due polli, tre bistecche, una frittata di venti uova dodici banane e due litri di vino rosso, raccontato da Vittorio Varale per “La Stampa”, nel 1938; a Bartali e Coppi naturalmente, descritti come novecenteschi Ettore e Achille da Dino Buzzati per “Il Corriere della Sera” nel 1949. “E’ troppo solenne e glorioso il paragone? Si chiede l’autore del “Deserto dei tartari” nel suo articolo intitolato appunto “Ettore e Achille”. E si risponde:” Ma a cosa servirebbero i cosiddetti studi classici …se non entrassero a far parte della nostra piccola vita? Fausto Coppi non ha certo la gelida crudeltà di Achille… Ma in Bartali, anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei”. E poi un poeta, Alfonso Gatto che nel 1958 scrive per “Il Giornale del mattino”: ”Al Tour dopo Bartali, dopo Coppi e dopo Koblet, Charlie Gaul è l’unico eroe che entri ogni volta in gara con la natura senza temerne il confronto”. E ancora, Mario Sconcerti nel 1978 su Moser: ”E’ solo, lo vedo di colpo,voltandomi indietro, nel lunotto infangato dell’auto. Scivola violento duecento metri più indietro. Picchia sui pedali con voluttà. Radio- corsa conferma: Moser tutto solo…Cristo, Francesco, non mollare, mancano venti chilometri a Roubaix”. E’ meglio di un romanzo avvincente questo libro. Riporta alla mente emozioni e immagini vere nobilitate dalle parole di grandi giornalisti e scrittori, tutti accomunati dalla passione per un’epopea, quella del ciclismo appunto, e tutti innamorati del loro ruolo di “suiveurs”. Barillari, nella prefazione, definisce così questo tipo di giornalista: ”Essi non solo raccontavano la corsa, ma erano al suo seguito come un tempo i cantastorie erano al seguito di un’armata”.
Ci sono articoli di Brera, Coppa, Crosetti, Fattori,Fossati, Montanelli, Anna Maria Ortese ( la prima donna a seguire il Giro e il Tour, con un berretto in testa per non farsi notare in quell’ambiente di soli uomini), Ormezzano,Vasco Pratolini, Raschi e molti altri, e tutti grandi. Colpiscono gli articoli di Mario Soldati. Uno per tutti, quello scritto nel febbraio del 1978 per la morte di Girardengo, un campione “antico” e mitico, il cui nome evoca un’altra epoca, quella che ormai viene descritta e raccontata soltanto nei libri di storia. “Non credo che i giovani di oggi possano capirmi- scrive Soldati- non credo, cioè, che l’adorazione che io e tutti i miei coetanei abbiamo provato per Girardengo negli anni successivi alla prima guerra mondiale, cominciando col meraviglioso 1919, l’anno supremo delle sue vittorie, sia stato provato da altri per qualunque altro eroe di qualunque altro sport”.
E subito la memoria corre a un altro triste febbraio di molti anni dopo. 14 febbraio 2004. Questa volta a raccontare la fine di un campione è Gianni Mura che come Vergani per Coppi, usa l’immagine di un volatile per descrivere Marco Pantani:”Ma è tutto qui? Questo pensai la prima volta che vidi da vicino Pantani, alla partenza del Tour del 1995…Mi parve un cardellino. Ma dopo appena qualche giorno l’avevo già chiamato Pantadattilo…rettile calvo e alato, perché il modo di correre di Pantani era antico, antichissimo, per non dire preistorico”. Mura descrive Pantani, le sue caratteristiche, la sua personalità enigmatica e lo racconta fino a quando la fragilità entrò come un torrente nella sua vita il 5 giugno del 1999, a Madonna di Campiglio.”Ematocrito suona come un poeta greco- scrive Mura- ma è un valore del sangue. Un controllo a sorpresa (per modo di dire) trova Pantani oltre i 52. Resta una sua dichiarazione profetica: abbiamo toccato il fondo, rialzarsi sarà per me molto difficile….”.
Mura racconta la morte di Pantani e parla del suo “suicidio inconsapevole durato quasi cinque anni”. E ancora l’immagine di un animale per descrivere la fine del pirata. Quella di un ermellino che si lascia morire se sulla sua splendida candida pelliccia compare una macchia.