Le foto prestate dal britannico Tim Flach allo spettacolo Equus sono state pubblicate nel libro omonimo (in Italia da Contrasto, 2008): nel volume, 162 scatti realizzati in sette anni di lavoro, Flach ha esplorato la bellezza formale del cavallo (e altri equidi), facendone emergere l’essenza. Nel libro, citazioni pittoriche richiamano i ritratti di Stubbs, giochi di chiaroscuro virano all'optical astratto, il naturalismo paesaggistico cede il passo alla cura anatomica del dettaglio, che decontestualizzato si sublima in segno grafico e simbolo ancora da svelare.
Flach non è uno specialista di cavalli, ma lo è di animali: un tema ricchissimo ma ”scivoloso”, dove è facile lasciarsi trascinare nel sentimentalismo del “ma che carino”. Non è questo il caso di Flach: nessun manierismo o tentazione di umanizzare i soggetti, che anzi restano squisitamente animali, “altri” e diventano per questo spiazzanti portatori di diversità. La cura grafica delle pose e del dettaglio insolito non lascia spazio al pittoresco, bandito dalle foto a favore del contatto cercato fra chi guarda e chi è guardato, alla scoperta di somiglianze nella differenza.
I pipistrelli sembrano attori avvolti negli abiti di scena, i cani mostrano i denti e le acconciature più elaborate raccontando le loro origini selvagge e lo status odierno, un’iguana fa la cresta sul cranio di un punk e un maiale stringe gli occhi in una smorfia di sofferenza. O forse no, ed ecco che il movimento di simpatia provato per l’animale sfuma in un dubbio, nell’impossibilità di comprendere l’espressione sul viso/muso dell’altro.