di Francesco Chyurlia
Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni ha raggiunto nei primi tre mesi dell’anno il 28,8%: si tratta del dato più alto dal 1999. E nelle regioni del Mezzogiorno questo dato, fornito dall’Istituto nazionale di statistica, ha toccato il picco del 43,6% per le donne.
Non c’è bisogno di ulteriori dati per capire che il problema rappresenta la vera priorità per lo stato italiano, una piaga che mese dopo mese accresce di dimensioni e di pericolosità sociale. A fine maggio, come di consueto, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha dedicato ampio spazio a questo fenomeno nelle sue considerazioni finali dell’Assemblea annuale dell’Istituto centrale.
Nel delineare una preoccupante situazione di lenta e fragile ripresa, Draghi ha messo in evidenza un punto cruciale per il nostro Paese: “Una ripresa lenta accresce la probabilità di una disoccupazione persistente. Questa condizione, specie se vissuta nelle fasi iniziali della carriera lavorativa, tende ad associarsi a retribuzioni successive permanentemente più basse”.
Ma torniamo ai dati. Oltre a quelli del primo trimestre, l’Istat mette in luce cifre ancora più allarmanti riferite al mese di aprile, dove il tasso di disoccupazione giovanile è schizzato al 29,5%, con un aumento di 1,4 punti percentuali rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. L’Istat sottolinea anche, con preoccupazione, che si tratta del dato più elevato da quando esistono le serie storiche mensili, ovvero dal 2004. Le dimensioni del dato statistico non possono essere ignorate o sottovalutate, tanto che il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha giudicato “la disoccupazione giovanile, in Italia, come una malattia endemica che non è sempre legata alla congiuntura economica, ma al cattivo funzionamento della scuola, degli ammortizzatori sociali e al fatto che si dà più ai padri che ai figli. La disoccupazione o inoccupazione giovanile – sostiene Brunetta - non è dunque strettamente legata alla crisi economica ma è un dato strutturale dell’economia italiana”.
Sei linee guida per creare occupazione
La linea del governo su questo tema è stata recentemente delineata dai due ministri più vicini a tale problematica, quello del Lavoro, Maurizio Sacconi, e quello dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, quest’ultima chiamata in causa nell’analisi del ministro-economista, Brunetta. Nel “Piano di azione per l’occupabilità dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro” si delineano sei priorità che possono essere così sintetizzate: facilitare il passaggio dalla scuola al lavoro, rilanciare l’istruzione tecnico-professionale ed il contratto di apprendistato, ripensare il ruolo della formazione universitaria così come l’utilizzo dei tirocini formativi insieme alle esperienze di lavoro nel corso degli studi, aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo. Va ricordato che i soggetti coinvolti in questo progetto sono, in Italia, poco più di 14 milioni nella fascia di età tra i 15 e i 34 anni, pari al 23% della popolazione nazionale residente. E le previsioni stimano per il 2020 un aumento di circa 800 mila giovani in età compresa tra i 15 e i 24 anni. Paradossalmente, secondo un’analisi del ministro del Lavoro, l’aumento della disoccupazione è influenzato anche dalla ripresa economica. “In ogni fase di ripartenza dell’economia una porzione di ‘scoraggiati’ sono incoraggiati ad offrirsi sul mercato del lavoro”. E per trovare lavoro in tempi più rapidi sarebbe meglio avere in tasca un diploma piuttosto che una laurea: “L’Italia è l’unico Paese europeo in cui il tasso di disoccupazione dei giovani laureati maschi è maggiore di quello dei coetanei con un livello di istruzione inferiore”.
Nel Rapporto “Italia 2020” si legge che, dopo tre anni dal diploma, hanno trovato lavoro l’83% de giovani provenienti dagli istituti professionali e tecnici, rispetto al 50% dei liceali. Inoltre questi giovani “hanno maggiori probabilità di avere retribuzioni più elevate: oltre il 42% guadagna più di mille euro mensili”. Nel resto d’Europa, invece, “la laurea presenta sempre dei vantaggi. Il Rapporto non nasconde anche il fenomeno della precarietà del lavoro giovanile. Citando i dati dell’Istat si rileva che tra gli occupati tra i 15 e i 29 anni il 30% ha un lavoro a termine a fronte dell’8% del resto della popolazione. Nella precarietà prolificano i "bamboccioni"
Una delle conseguenze indotte dall’alto tasso di disoccupazione è quello dell’aumento dei cosiddetti “bamboccioni” (ricorderemo che tale termini fu coniato nell’ottobre del 2007 dall’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa nel corso di un’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camere e Senato: “Mandiamo i ‘bamboccioni’ fuori di casa”, disse con un po’ di brutalità il ministro, definendo così i giovani che restano troppo a lungo a casa con mamma e papà). Il fenomeno “bamboccioni” riguarda in particolar modo i maschi che in un caso su tre rinviano l'uscita dalla famiglia, rispetto alle femmine che lo fanno in un caso su cinque. Complice di questa particolare situazione, la difficoltà per i giovani di trovare lavoro e raggiungere un'autonomia economica.
Nel Rapporto Istat 2010 sulla situazione del Paese la quota dei 18-34enni celibi e nubili che vive in famiglia è cresciuto dal 49% del 1983 al 60,2% del 2000, attestandosi poi al 58,6% nel 2009. In particolare, però, rispetto al 1983, si è triplicata la quota di chi vive in famiglia tra i 30-34enni. Una convivenza prolungata con i genitori dovuta soprattutto da problemi economici (40,2%) e dalla necessità di proseguire gli studi (34%). Solo in un caso su tre la permanenza in famiglia è indicata come una scelta (31,4%), ma rispetto al 2003 si registra una diminuzione di nove punti del modello di "permanenza-scelta", soprattutto nelle zone più ricche del Paese (-16 punti nel Nord-est e -13 nel Nord-ovest), dove questa motivazione era maggiormente segnalata in passato. Tra i motivi economici più segnalati, spiccano le difficoltà di trovare un'abitazione adeguata (26,5%) e quella di trovare lavoro (21%). Un fenomeno particolarmente rilevante riguarda i giovani cosiddetti "ne'-ne'". Nel 2009, sono oltre due milioni (il 21,2% o dei 15-29enni) quelli che risultano fuori dal circuito formazione-lavoro, cioè non lavorano e non frequentano alcun corso di studi (Not in education, employment or training, Neet).
Nel confronto internazionale l'Italia presenta un numero di "neet" molto elevato. Nel nostro Paese questa condizione è riconducibile più all'area dell'inattività (65,8%) che a quella della disoccupazione. Nel periodo 2008-2009 la permanenza nella condizione di Neet è pari al 73,3% (in crescita); cresce anche il flusso in entrata degli ex-studenti non occupati, che passa dal 19,9 al 21,4%. Peraltro, sempre secondo l'Istat, sono proprio i giovani il segmento in assoluto più colpito dalla crisi economica. Non c'è titolo di studio che freni l'emorragia
La fase ciclica negativa ha avuto infatti un forte impatto sulla popolazione giovanile, determinando una significativa flessione degli occupati tra i 18 e i 29 anni: 300 mila in meno rispetto al 2008, il 79% del calo complessivo dell'occupazione. Il fenomeno è dovuto al fatto che una parte significativa di questa caduta riguarda il lavoro atipico (-110 mila unità), in cui i più giovani risultano maggiormente impiegati. Una flessione, quella dell'occupazione giovanile, particolarmente brusca e repentina. Secondo l'Istituto di statistica, infatti, dopo il moderato calo tra il 2004 e il 2008 (dal 49,7 al 47,7%), il tasso di occupazione dei 18-29enni è sceso in un solo anno al 44%: una caduta tre volte superiore a quella del tasso di occupazione totale.
E non c'e' preparazione che tenga: nessun titolo di studio e' stato in grado di proteggere i giovani dall'impatto della crisi. La flessione dell'occupazione per chi ha un titolo non superiore alla licenza media e' particolarmente critica (-11,4%), ma rimane rilevante anche per i diplomati (-6,9%) e per i laureati (-5,2%). In particolare i figli che vivono nella famiglia di origine, spesso impegnati in lavori temporanei e con bassi profili professionali all'inizio della loro carriera lavorativa, rappresentano il gruppo più colpito dal calo dell'occupazione (-332 mila unità). Il tasso di occupazione dei figli 15-34enni, pari al 36,1%, cala di oltre tre punti percentuali rispetto al 2008; per i genitori, che hanno potuto contare sulla cassa integrazione in misura maggiore, la flessione è meno acuta, non arrivando al punto percentuale (dal 65,4 al 64,8%). Per la prima volta dall'inizio degli anni Novanta, nel 2009 diminuisce il reddito disponibile in termini correnti delle famiglie consumatrici (-2,7%). Considerando la sottostante variazione dei prezzi, il potere d'acquisto subisce una riduzione del 2,5%, proseguendo la tendenza avviatasi nel 2008 (-0,9 per cento).
La riduzione del reddito disponibile trae origine dalla contrazione del reddito primario, dovuta in modo consistente al decremento dello 0,7% dei redditi da lavoro dipendente, che contribuiscono per oltre il 55% al reddito primario delle famiglie. D'altra parte, crescono in misura significativa le risorse percepite dalle famiglie per cassa integrazione guadagni e assegni di integrazione salariale: oltre 3,5 miliardi di euro in più rispetto al 2008.
La famiglia, però, rimane uno degli ammortizzatori sociali fondamentali soprattutto per i giovani che hanno perso il lavoro. E in particolare per i figli che vivono nella famiglia di origine, spesso impegnati in lavori temporanei e con bassi profili professionali all'inizio della loro carriera lavorativa, che rappresentano il gruppo più colpito dal calo dell'occupazione (-332 mila unità). La minore entità dei guadagni dei figli rispetto a quelli dei genitori ha determinato una riduzione del reddito familiare relativamente più contenuta. D'altra parte, la perdita di occupazione dei figli è stata più frequente nelle famiglie con almeno due redditi.
Alla diminuzione del reddito familiare si accompagnano spesso situazioni di disagio economico. Secondo i dati provvisori dell'indagine Eu-Silc, nel 2009 il 15,3% delle famiglie presenta tre o più categorie di deprivazione. Tale valore è marcatamente più levato tra le famiglie con cinque o più componenti (25,5%), tra quelle residenti nel Mezzogiorno (25,3%), quelle con tre o più minori (29,4%) e quelle che vivono in affitto (31,4%). La perdita del lavoro e il passaggio alla cassa integrazione hanno solo in parte contribuito all'entrata delle famiglie in situazioni di deprivazione; in realtà, infatti, il 60% del totale delle famiglie che nel 2009 risultavano deprivate lo era già nel 2008. Inoltre, in molti casi, la presenza in famiglia di altri percettori di reddito ha garantito la permanenza nello stato di non deprivazione.
A parità di altre condizioni, il passaggio dall'occupazione alla cassa integrazione non ha avuto effetto sull'entrata in deprivazione. Ciò contribuisce a spiegare perché l'indicatore di deprivazione, pari al 15,3%, sia rimasto stabile rispetto al 2008. Tra il 2008 e il 2009 crescono le famiglie indifese nel far fronte a spese impreviste (dal 32 al 33,4% in media), quelle in arretrato col pagamento di debiti diversi dal mutuo (dal 10,5 al 13,6% di quelle che hanno debiti) e quelle che si sono indebitate (dal 14,8 al 16,4 per cento).