di Raffaella Miliacca
Nonostante il successo dei suoi libri, continua a lavorare in uno dei più noti studi legali di Chicago, oscillando tra onorari vertiginosi e il patrocinio gratuito per le cause che lo appassionano. Scott Turow, maestro del legal thriller, racconta di sé e del suo ultimo romanzo “Innocente” (ed. Mondadori), sequel del suo primo successo di 23 anni fa, “Presunto innocente”, diventato anche un film di Alan Pakula.
Per molti anni ho esitato a scrivere il seguito, non volevo mettermi in concorrenza con il successo del primo, dice lo scrittore. Nel 2005 mi è venuta un’idea, ho scritto una frase su un post it ed è rimasta lì per mesi. La frase ricordava un quadro di Hopper, un uomo seduto su un letto accanto a una donna che dorme. Poi, è venuta la trama. Volevo che “Innocente” fosse un libro a sé rispetto a “Presunto innocente”, non volevo che cancellasse quella storia, ma che restasse di sfondo. In questi anni sono cambiati gli strumenti d’indagine, la tecnologia è di grande aiuto, ma quello che per me conta, spiega Turow, sono le persone, quello che sanno, quello che non sanno, quello che vogliono o non vogliono sapere. Nei miei romanzi ho sempre parlato dei limiti del sistema giudiziario, il comportamento umano è molto più vario di quanto possa essere rappresentato in un tribunale.
Parlando del libro, il romanziere parla anche di sé. Sono una persona che ha senso politico, m’informo, ma penso che gli avvenimenti del mondo raramente ci toccano nelle nostre vite personali e non ritengo che l’arte debba sostituirsi, per esempio, al commento di un giornalista. Turow è contro la pena di morte, convinzione per la quale si richiama addirittura a Cesare Beccaria. Da giovane, dice, pensavo fosse una barbarie. Poi , cominciando a lavorare come avvocato, ho capito che la vera domanda è questa: si è mai creato un sistema giudiziario nel quale siano coinvolti solo i casi giusti e non quelli di innocenti o di chi non può permettersi una difesa? Credo di no e credo che non si creerà mai.
Infine, il suo rapporto con il presidente statunitense Obama, al quale è stato molto vicino durante la campagna elettorale. Non sono più in contatto con lui da tempo, dice. I problemi del primo anno di presidenza erano prevedibili. Obama è un uomo intelligente, ma molto cauto. Era ovvio che ci mettesse un po’ a trovare la strada giusta, inoltre su di lui c’erano molte attese. E’ difficile valutare un politico che si è conosciuto da vicino. L’unica critica che mi sento di fargli è di non aver affrontato con severità il mondo delle banche finanziarie. Ma la sua popolarità è ancora alta e, se l’economia si riprenderà, potrebbe essere rieletto.
Il Risorgimento visto da Maurizio Maggiani
Nello spazio che il Salone dedica al 150° dell’Unità d’Italia, lo scrittore ligure racconta la sua passione per il Risorgimento. Ci sono state due generazioni di giovani italiani, dice Maggiani, che hanno speso la loro vita per farsi “carne macinata per l’Universo”. Due generazioni che hanno dedicato la vita alla rivoluzione, perché il Risorgimento è stata una rivoluzione continua. Per 50 anni, tutta l’Europa e le Americhe hanno guardato a ciò che accadeva in Italia come il più grande teatro della Storia. Mazzini, Garibaldi, Pisacane, rivoluzionari a vario titolo. Repubblicani, socialisti, liberali, non si davano etichette, avevano un pensiero e lo discutevano tra di loro. Pensieri costituenti la modernità del ‘900, per Maggiani, e ancora oggi strumento di comprensione della realtà.
Che significava per quegli uomini l’Unità d’Italia? Significava la realizzazione degli ideali di libertà, giustizia, solidarietà. Voluta da una minoranza, si dice? Sì, quella dei parlamentari eletti solo dai proprietari terrieri, del governo che mette la tassa sul macinato e che impone la legge marziale per sconfiggere il brigantaggio al Sud. Certo, quella era una minoranza. Ma l’unità d’Italia come baluardo e certezza di un popolo che andava facendosi, come unica possibilità di autodeterminazione, quella la volevano in molti.
Scalfari e la modernità
La presentazione di “Per l’alto mare aperto”, di Eugenio Scalfari (ed. Einaudi) è l’occasione per fare un viaggio nella modernità, che lui colloca in un arco temporale di quattro secoli, a partire da Montaigne fino a Nietzsche. La modernità, dice Scalfari , è un’epoca precisa, che sui libri di storia comincia con la scoperta dell’America, nel 1492. Io la faccio cominciare con Montaigne, un secolo dopo, perché con lui comincia il pensiero che pensa la modernità. Il mio è un viaggio arbitrario, spiega l’autore, ci sono lacune volute. Montaigne e Nietzsche ci comunicano la stessa visione del mondo. Montaigne dice: tutto nel mondo è in movimento, siamo quotidianamente soggetti a mutamento. Per Nietzsche il centro è ovunque, perché l’uomo si ritiene il centro dell’Universo. La loro visione del mondo mette in discussione la verità assoluta, l’assoluto. Questo è l’asse centrale della modernità, cioè il relativismo. Da Montaigne comincia a scorrere il timer di una bomba che Nietzsche farà scoppiare. La generazione attuale ha deciso di rifiutare i codici della modernità. Quelli che Scalfari chiama i “nuovi barbari” rifiutano i nostri valori, dice, vogliono ricominciare da zero. Ma i barbari sono il nuovo che arriva, aggiunge, non si possono distruggere. Dobbiamo tentare di immettere in loro qualcosa dei nostri valori.