di Raffaella Miliacca
Qual è il futuro della memoria? Quali gli strumenti per la sua conservazione? La tecnologia viene davvero in suo aiuto? Al Salone del libro Umberto Eco incontra il pubblico affrontando proprio il tema dell’avvenire della memoria e analizza quelle che definisce alcune sue malattie Ci sono tre parole, spiega, che significano la stessa cosa: anima, cultura e memoria. La cultura è l’anima e la memoria di una comunità. La funzione della memoria e della cultura non è solo quella di conservare, ma anche quella di filtrare, cioè buttare via. La cultura agisce sempre in un doppio processo di conservazione ed eliminazione. Ha anche una terza funzione, quella di latenza: prende certe cose e le mette in frigo, potranno essere successivamente ricercate. Non è sempre detto, aggiunge Eco, che quello che viene filtrato è davvero quello che doveva cadere o viceversa. Certe volte ci accorgiamo che il filtraggio è stato folle. Leggendo Aristotele, per esempio, scopriamo che ci sono stati tramandati solo alcuni tragici greci. Altre cose sono andate perse per accidenti, come nel caso del rogo della biblioteca di Alessandria. Oggi, continua il semiologo, c’è un eccesso d’informazione. Simbolo e realtà di questo è il web, dove si trova tutto. La rete rappresenta una cultura che vive del proprio eccesso e che non mette niente in latenza. Manca una prova scientifica della durata dei supporti elettronici, dice, e questo crea il rischio che tutta questa informazione scompaia completamente, mentre sappiamo che la carta resiste almeno 500 anni. Inoltre, in questo eccesso di comunicazione, si rischia di non essere in grado di distinguere cosa conservare e cosa buttare. Un altro rischio viene da Wikipedia, al quale lo stesso Eco ammette di fare ricorso. E’ un’enciclopedia che si forma dal basso, il controllo viene solo da una comunità che lui chiama motivata, esiste quindi un problema delle fonti.
Cristiani e laici, Chiesa e democrazia
Sulle possibilità di un dialogo si confrontano Rosy Bindi e Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, al Salone per il suo ultimo libro, “Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo” (ed. Laterza). I cristiani dovrebbero essere sfidati a partecipare all’elaborazione del concetto di laicità e a non esserne tenuti fuori, dice Rosy Bindi, la stessa Chiesa dovrebbe essere chiamata a prendere parte alla costruzione di una democrazia più matura. Del resto, aggiunge, non si può negare che il pensiero cristiano abbia contribuito alla creazione della nostra Carta Costituzionale. Il pensiero laico dovrebbe avere un po’ più di fiducia in quello cristiano. La laicità è proprio la capacità d’incontro delle idee, dove nessuna s’impone sull’altra. Per il credente, dice ancora Bindi, il peccato più grande è ritenere di possedere la verità, ma il messaggio e la missione della Chiesa è l’universalità, e a questa non può rinunciare. Sì al dialogo, conclude, ma riconoscendoci come protagonisti del fondamento della nostra democrazia e cultura. Per Zagrebelsky occorre parlare di laici e non di laicità, come principio astratto. Laico è chi antepone la propria coscienza a delle verità dogmatiche. Un dialogo tra credenti e non credenti, spiega, può esserci solo in nome dell’essere laici. La democrazia richiede che ciascuno sia presente nella vita civile come laico, rappresentando solo se stesso. Oggi, per Zagrebelsky, la posizione del magistero della Chiesa è di assoluta chiusura e se la Chiesa si pone come autorità dogmatica, il conflitto con la democrazia è ovvio. Nella libertà, conclude, anche il messaggio cristiano avrebbe libertà di espandersi senza equivoci di finalità politiche.