Lavoro, facciamo il punto


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Non sei protetto? Arrangiati

Intervista al Direttore Generale del Censis, Giuseppe Roma e

di Francesco Chyurlia

Come cambia il lavoro in Italia? Siamo di fronte a una evoluzione della realtà produttiva del Paese o a una sua involuzione? I fatti di Rosarno, il persistere di larghe sacche di lavoro nero legate anche alla presenza di lavoratori immigrati, fa pensare a un fenomeno di difficile soluzione. Quest’anno è sembrato che il Primo maggio si sia riappropriato tristemente di antichi significati inerenti alla tutela del lavoro. La crisi del 2009 ha acuito problemi che credevamo appartenessero al passato. Abbiamo cercato di fare il punto con il direttore generale del Censis, Giuseppe Roma.

Quale scenari rileva il Censis in questa fase di timida uscita dalla crisi?
Il lavoro è in continuo cambiamento, anche se alcune questioni antiche, alcuni retaggi del passato, non riusciamo a superarli. Le questioni antiche riguardano la primordialità del lavoro. Si pensi ai lavori nei campi o nell’edilizia dove persiste la piaga del lavoro nero. Un fenomeno che il Censis ha scoperto più di 40 anni fa. Quest’anno i fatti di Rosarno sono l’emblema di una piaga: il lavoro nero. Rosarno, luogo simbolo del Primo maggio, si caratterizza più che altro come fenomeno di lavoratori asserviti alla criminalità organizzata. Ma non va vista solo una faccia della medaglia. Esistono anche condizioni di progresso in cui gli immigrati sono al 20-22% proprietari di abitazioni e del tutto integrati nella nostra società. A Rosarno o a Casal di Principe non è una lotta tra poveri, è il fenomeno di lavoratori vittime della n’drangheta o della camorra. In quelle realtà c’è un controllo feroce del territorio. Immigrazione e precarietà sono fenomeni preoccupanti in Italia. Aver assorbito circa 4 milioni di immigrati ha sicuramente aumentato l’area della precarietà, ma il tasso di povertà in Italia non è cresciuto in modo molto rilevante. Crescono invece le diseguaglianze.

In Italia la povertà è in crescita?
C’è una povertà di nuovo conio. Prima c’era la povertà cosiddetta dell’osso (delle montagne), ora abbiamo una povertà delle grandi aree metropolitane, del Sud d’Italia. Il problema vero è che in Italia ci sono due mercati del lavoro: un mercato protetto fatto di tante persone, la gran parte appartenenti al lavoro dipendente a tempo indeterminato, e un altro mercato, crescente, costituito da lavoratori flessibili e precari.

Quindi si profila un’Italia a due velocità?
In un certo senso sì. Nella crisi 2008-2009 abbiamo avuto un lieve aumento dello 0,4% dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e una diminuzione del lavoro autonomo e di quello flessibile. Nel periodo di crisi abbiamo perso 9% dei lavoratori a tempo determinato e abbiamo assistito all’aumento del 16% delle partite IVA. Su 23 milioni di occupati ci sono 15 milioni di lavoratori a tempo indeterminato (65%) mentre il restante 35% sono così suddivisi: 20% lavoratori autonomi e 15% flessibili.

Ma i lavoratori non sono diventati più flessibili?
Sì, ma ora la flessibilità è soprattutto in entrata con la tendenza a cristallizzare l’uscita. Questo meccanismo crea da una parte una maggiore sicurezza e anche una maggiore produttività, ma in diversi settori (pubblici o impiegatizi) questa sicurezza si trasforma in rendite di posizione.

Chi ha pagato il costo della crisi?
Il 45% di coloro che, nel periodo di crisi, hanno perso il lavoro ha meno di 35 anni. Sono saltati soprattutto i lavoratori flessibili e i giovani, e questo è preoccupante. Ci troviamo di fronte a un muro contro muro tra due fasce della società. Servirebbe una maggiore mobilità interna. In pratica succede questo: tutti quelli che stanno dentro, stanno bene. Gli altri? Si arrangiano.

Che si fa per chi cerca lavoro? Servono i centri per l’impiego?
La nostra spesa pubblica copre per il 65% le pensioni e la sanità, mentre per gli aiuti al lavoro resta ben poco. In più, i centri per l’impiego dovrebbero accompagnare le situazioni più difficili e facilitare il passaggio dalla scuola al lavoro. Ma questo sistema, nuovo sulla carta, è rimasto ancorato alla vecchia concezione dell’ufficio di collocamento. All’estero il lavoro ha una centralità maggiore che da noi. La formazione è una cosa più seria che da noi. Nel 2009 ben 800 miliardi, la metà del Pil, è rappresentato dalla spesa pubblica: di cui 175 miliardi per il lavoro dipendente, 233 miliardi per le pensioni e 113 miliardi per la spesa sanitaria. Il restante 35% sono interessi passivi, casa, lavoro etc. Quindi interventi per il lavoro sono rappresentati, soprattutto, dalla cassa integrazione. In Germania, per esempio, vengono erogati 700-800 euro al mese per chi non lavora.