Viaggio nella crisi del basket italiano

Decadente, malato, senza futuro né prospettive. Tutto ha origine dalle risse infinite tra federazione e lega F

di Gianluca Luceri

Decadente, malato, praticamente in crisi. E’ la fotografia del secondo sport italiano, quella pallacanestro che in un paese di calciofili incalliti come il nostro ha sempre saputo ritagliarsi spazi di grande dignità ma che da almeno sei anni annaspa nella mediocrità. La lista dei mali è lunga come un treno-merci, un profondo rosso che nasce da un’equazione tanto semplice quanto perfetta: movimento debole uguale nazionale debole uguale risultati scadenti. E senza un’Italbasket competitiva a far da traino, non ci sono né futuro né prospettive. Ed è proprio da qui che bisogna ripartire per trovare un po’ di luce in fondo al tunnel nel quale il nostro basket si è infilato.

Le inquietudini cestistiche iniziano dalle risse infinite tra federazione e lega, dove ognuno tira l’acqua al suo mulino per la questione dei “troppi stranieri e troppi pochi italiani” da schierare sul parquet. Storia vecchia ma sempre attuale. E solito tormentone: costa di più far crescere un giovane di casa nostra senza nessuna certezza sulla sua affermazione futura, o costa meno ingaggiare un americano che dà più garanzie sul momento e mantiene più elevato – sempre sul momento - il livello di competitività della squadra? Se si ragiona sul rapporto qualità-prezzo, c’è poco da discutere: meglio uno straniero. Prendi, paghi, ottieni (ma non è un dogma, visto che i flop si sprecano). Ma se si ragiona in termini di movimento, e pochi presidenti di club lo fanno, i frutti sono quelli attuali. Si continuano a far giocare i trentenni nelle serie minori, si trasformano le squadre in torri di Babele, trovando giustificazioni per non puntare sui vivai. Morale: niente semina, niente raccolto. Ecco dunque una nazionale che non si qualifica per le Olimpiadi di Pechino, che guarda in televisione gli ultimi Europei, mentre nel 2004 vinceva ai Giochi di Atene la medaglia d’argento.

Stringere i denti oggi, per sorridere domani: è la battaglia che anima e che ha iniziato a combattere Dino Meneghin, presidente della Federbasket e leggenda indiscussa della pallacanestro italiana. Da pivot straordinario qual è stato, con alle spalle un’infinita carriera spesa a sgomitare sotto i tabelloni, tocca a lui, da due anni a questa parte, districarsi in mezzo ad un simile ginepraio. E’ un Tourmalet da scalare, certo, ma ‘Dinone’ ha carisma, stoffa e mentalità vincente per riuscirci.

Il chiodo fisso dell’Italia deve essere uno solo: ritrovare ad ogni costo un posto tra le prime otto d’Europa, una soglia che attualmente vediamo a malapena col binocolo. Bisogna rimettere mano ai vivai, lavorare duro sulla base e sporcarsi di nuovo le mani coi giovani. Molti allenatori non lo fanno più e hanno perso il valore dell’insegnamento. A parte Siena e Treviso, i settori giovanili sono stati abbandonati come campi in cui ormai cresce solo ortica. Così pendiamo dalla (non certa) presenza in nazionale dei tre ‘americani’ Bargnani, Gallinari e Belinelli, facce ‘made in Italy’ nel grande pianeta Nba, da cui non possiamo prescindere. Con loro, infatti, la nazionale potrebbe ri-illuminarsi d’immenso, senza di loro rischiamo di prendere ancora bastonate a destra e a manca. Perché gli italiani d’Italia, i pochi che restano in un campionato esageratamente multietnico, sono buoni ma non grandi giocatori. Altro angolo da smussare: il dichiarato scontento del presidente del Coni Petrucci che non plaude alla scelta di un ct azzurro part-time perché, parole sue, “la nazionale è in crisi e avrebbe bisogno di un lavoro costante e duraturo. E come diceva Kant, nessuno può costringermi ad essere felice a modo suo”. Tutto vero, se non che l’attività della nazionale di basket, a differenza del calcio, si svolge prevalentemente in estate e che di nazionali straniere allenate da tecnici a mezzo servizio, è pieno il mondo. Chi avrà ragione? E’ il tempo, galantuomo, che lo dirà. Lo diranno il campo e i risultati ottenuti, consapevoli che peggio di questi ultimi due anni, oggettivamente, non si può proprio fare.

Quel che resta del movimento, sono spine sparse un po’ dappertutto. Un movimento che non si è accorto nemmeno dei progetti a perdere di Gaetano Papalia, presidente di Rieti che ha pensato di spostare le sue attività cestistiche dalla Sabina a Napoli. La passione sportiva dei tifosi calpestata per gli affari. O per la sopravvivenza, visto che la Sebastiani a Rieti avrebbe chiuso nel giro di pochi mesi non avendo sostegno né dalle istituzioni né dagli sponsor. Ma non è che all'ombra del Vesuvio le cose siano andate meglio. E difatti la squadra di Rieti-Napoli (un obrobrio solo a pronunciarlo e che non doveva essere permesso), senza il becco di un quattrino, è stata prima penalizzata per mancati versamenti tributari (Irpef, Enpals e via dicendo), poi ha visto fuggire dopo poche settimane di campionato tutti i suoi giocatori (stranieri) e si è ritrovata a dover schierare gli under 19, umiliati ogni domenica con passivi da guinness (più di 100 punti di scarto).

C’è poi la mancanza di visibilità e di ricavi tv, la depressione economica attuale che rende complicato trovare uno sponsor adeguato (elemento imprescindibile per la sopravvivenza di un club) e il problema della riduzione dei pesantissimi oneri fiscali, visto che la pallacanestro, insieme al calcio, è l’unica disciplina professionistica in Italia, per tanto il regime di tassazione è uguale a quello del dorato mondo del pallone. Quindi se un giocatore prende 100 mila euro d’ingaggio, a una società ne costa 240.000. Cifre, queste, che il primo ‘degli altri sport’ non può più permettersi di sopportare.

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