di Raffaella Miliacca
Come raccontare l'orrore. "Libri Come", la festa del libro di Roma, all'Auditorium fino al 28 marzo, ha affidato la sua apertura a Boris Pahor, autore di "Necropoli".
Pahor nasce a Trieste nel 1913 da una famiglia slovena. Viene mandato da bambino in seminario, parte militare per la Libia, entra nella Resistenza, finisce nei campi di lavoro nazisti. "Il mio trauma- racconta- comincia a 7 anni, quando assisto all'incendio della Casa della Cultura slovena", data alle fiamme dall'insorgente fascismo, dopo tumulti anti-slavi. "Mi si chiede di diventare un altro, non solo d'imparare una lingua (l'italiano)".
L'autore si descrive più volte "uno studente fallito", dover dimenticare la sua lingua, la sua cultura, lo fa "vivere come un sonnambulo". Studia in seminario, studia mentre è militare, ma solo prima di finire in Germania scrive una novella. "E' solo l'inizio del mio desiderio di scrivere", dice.
Uscito dai lager nazisti, finisce in un sanatorio francese. "Qui nasce la voglia di comunicare la mia esperienza. Su alcuni blocchi ho fatto annotazioni per non dimenticare". Alcuni capitoli di un libro di novelle che esce nel'48 raccontano il dramma dei campi di concentramento.
"Necropoli", il capolavoro di Pahor, fu pubblicato in Francia nel 1967. In Italia fu tradotto solo 30 anni dopo. "L'idea di scrivere da uomo libero cosa ero stato nel campo di lavoro nasce da una seconda visita nel lager", nel dopoguerra, dice lo scrittore. "Dei campi in cui sono stato, come Dachau, non si parla quasi mai. Non hanno a che fare con l'Olocausto, ossia con quelli dove si sterminavano sistematicamente gli ebrei, sono campi di lavoro, si lavora finché si sta in piedi". Nei libri di scuola, aggiunge, non si trova molto di questi avvenimenti. "Eppure è importante conoscere il passato per difendersi da quello che può accadere nel futuro".