In questi giorni al Piccolo Teatro di Milano è in corso una protesta. Gli attori e i tecnici in scena con “Sogno di una notte di mezz’estate” di Shakespeare, regia di Luca Ronconi, alla fine dello spettacolo leggono un comunicato in cui si denuncia la politica culturale di governi degli ultimi anni, che tende sempre di più a sacrificare e a mortificare un settore vitale del nostro paese, come quello della cultura e in particolare quello degli spettacoli dal vivo. Le cose vanno male, ci spiega Gianluigi Fogacci, portavoce degli attori, molti non hanno un lavoro, e chi ce l’ha vive nella paura di perderlo. I lavoratori dello spettacolo non fanno eccezione.
In che senso?
Ogni anno, adducendo motivi di crisi di bilancio, i fondi per lo spettacolo vengono ridotti e si sta smembrando un tessuto lavorativo e occupazionale importante. Ogni euro investito in uno spettacolo ne produce almeno altri cinque. Sono 200mila i lavoratori dello spettacolo, con un indotto altamente a rischio. Ci sono sartorie, laboratori di scenografia, che lavorano per il teatro, che stanno chiudendo. Se a ogni istituto culturale ( che sia un Teatro stabile, o una Compagnia privata o un teatro privato di interesse pubblico) viene ridotto ogni anno il contributo del 20/30%, sia a livello nazionale sia locale, le produzioni vengono tagliate, vengono fatti spettacoli più piccoli, o non vengono fatti, i teatri chiudono, e attori, registi, scenografi, costumisti, si trovano a spasso. Per fortuna siamo un paese dalle mille risorse. Gli attori si ingegnano, inventano lavori, fanno corsi di teatro, aprono scuole. Questo è uno dei paesi con il più alto patrimonio culturale al mondo, che disinveste in questo settore. Quando gli spettacoli italiani vanno all’estero hanno un successo enorme. Veniamo considerati dei maestri. Siamo una sorta di faro. La cultura italiana ha lasciato un segno nel mondo. Bisogna dar seguito a questa tradizione, che significa non solo conservare, ma innovare, investire per trovare nuove forme.
Cosa significa oggi fare l’attore?
Dover spendere la maggior parte del proprio tempo a cercare lavoro, piuttosto che nell’aggiornamento professionale. Oggi si riesce ad essere attori solo se si è bravi manager di se stessi. C’è una tale frammentazione del lavoro che bisogna tenere i piedi in 10 scarpe contemporaneamente per riuscire ad avere una minima continuità lavorativa. Siamo completamente privi di ammortizzatori sociali. In Francia e Germania gli attori quando finiscono le scritture entrano in un regime di disoccupazione e hanno un salario minimo garantito. Il teatro è considerato un settore vitale. C’è molta solidarietà e c’è un ‘organizzazione del lavoro sindacale molto più forte e coesa. Qui da noi l’attore fa i conti con il proprio peso contrattuale. Se è famoso è più forte e riesce a dettare le sue regole. I più deboli, spesso i giovani, soccombono o sono costretti ad accettare contratti anomali. Difficilmente le categorie si coalizzano in una battaglia comune. Questo impoverisce il mondo del lavoro, precarizzandolo.
In Italia non esiste una legge per il teatro. Adesso sta per essere varata.
Finalmente, Paolo Grassi la chiedeva già nel ’49 e non l’ha mai vista Quando c’è una legge, c’è una normativa seria dalla quale non si può prescindere. Parlo soprattutto della ripartizione del Fondo che per oggi è a totale discrezionalità dei funzionari e dei ministeri vari. Certo la legge è importante, ma è solo una carta. Bisogna che tutta la società si faccia carico e sia informata di cosa è realmente il mondo dello spettacolo. La maggior parte delle persone ha una percezione distorta , di un mondo di privilegiati, viziati, invece ci sono professionisti che non vengono riconosciuti come tali. Manca un albo professionale. Oggi in Italia chiunque può dire sono un attore e mettersi sul mercato.
Fare l’attore oggi garantisce un posto fisso o comunque una continuità lavorativa?
Non esistono attori assunti con il posto fisso. I nostri contratti sono sempre a tempo determinato. E sempre più brevi, due o tre mesi, quindici giorni, eventi unici. Avere una continuità lavorativa è praticamente impossibile. Fatta eccezione per le star, ma la categoria non ha un peso contrattuale. E’ arrivato il momento di contarci . La crisi, si dice oggi con molta retorica, è un occasione per cambiare le cose. Deve valere anche per noi. Servono riforme. Non è mai stata varata nessuna misura anticrisi per lo spettacolo, se non tagliare ulteriormente il Fus, salvo poi parziali reintegrazioni sotto spinte e suppliche dei teatri più importanti . Nel 1985, quando è stato istituito per la prima volta, il Fondo Unico per lo spettacolo aveva il triplo del valore che ha adesso. Più o meno la stessa cifra di oggi, ma sono passati 25 anni. Il potere di acquisto si è assotigliato di un terzo.
Il 27 marzo è stata istituita la giornata mondiale del teatro. Cosa significa per voi?
Tutte le volte che le istituzioni teatrali vengono alla ribalta pubblica è un fatto positivo. Certo è paradossale che le istituzioni nazionali festeggino il teatro e poi non si curino della quotidianità dello spettacolo. E’ comunque un’occasione per parlare, per confrontarci per proseguire la nostra forma di protesta che non è politica, ma solo per esistere. Il teatro non è né di destra né di sinistra. Il teatro è un patrimonio enorme che dobbiamo supportare, e anche sopportare in certi momenti, perché è fondamentale per la crescita della nostra società. Dobbiamo resistere a tutte le invasioni tecnologiche, ben consapevoli che, se ben usate, possono anche arricchire il patrimonio teatrale.
Spesso si dice che il teatro è morto. I giovani non vanno a teatro. Non attira più?
Non è vero. Nelle ultime quattro stagioni c’è stato un incremento di pubblico nei teatri .Noi abbiamo sempre il teatro esaurito. C’è sete di conoscenza. Bisogna investire sulla nuova drammaturgia, sulla sperimentazione. Va allevata una generazione di drammaturghi che da noi ci sono, ma che fanno una grande fatica a essere rappresentati, proprio per la mancanza di fondi. Quando si investe c’è sempre un ritorno, anche di pubblico.