di Sandro Calice
IL PROFETA
di Jacques Audiard, Francia 2009 (BIM)
Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi, Gilles Cohen, Pierre Leccia, Jean-Philippe Ricci, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi.
Jacques Audiard (“Tutti i battiti del mio cuore”, “Sulle mie labbra”) ha un’idea precisa, “la convinzione che il cinema debba avere un forte connotato sociale e che la sua sua funzione sia quella di raccontare il mondo reale, di guardare al reale per insegnare a vivere”. “Il profeta” prova a essere fedele a questa convinzione.
Malik El Djebena (Rahim) ha 19 quando entra in carcere. E’ stato condannato a sei anni, non sa leggere e scrivere, nessun effetto personale ed è solo al mondo. Si trova immediatamente diviso tra il gruppo degli arabi, al quale apparterrebbe per sangue, e il clan dei corsi, il cui padrino César Luciani (Arestrup), decide di affiliarlo e proteggerlo, a un prezzo altissimo. Malik ha solo la sua intelligenza a difenderlo, accetta, ma contemporaneamente frequenta anche la scuola del carcere, dove impara anche il dialetto franco-italiano dei corsi. Diventa, così, rapidamente l’unico a parlare con tutti e con cui tutti parlano, tanto che Luciani decide di affidargli alcune “missioni” all’esterno. E il suo potere cresce. Malik sembra avere un cammino segnato, un destino già scritto, come un piccolo profeta, ed ha un suo piano.
“Il profeta” ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes, 9 premi César ed è stato candidato agli Oscar 2010 come miglior film straniero. Audiard è bravo a raccontare con rigore stilistico e una sceneggiatura limata uno spaccato realistico della società multietnica francese, puntando la macchina sull’eroismo delle persone comuni e senza cedere a tentazioni epiche. Ci sono, insomma, più echi de “L’odio” di Kassovitz che di “Scarface”, come ammette lo stesso regista, secondo il quale “i nevrotici sono dei cretini e non possono diventare oggetto di identificazione. L’ascesa al potere di una persona assolutamente folle non mi interessa affatto”. Forse però in questa eccessiva “normalità”, in questo voler per forza mettere le distanze dai clichè dei film sulle prigioni e sui gangster, sta anche un po’ la debolezza del film, col personaggio di Malik (molto bravo Rahim) che in alcuni momenti sembra vincere per caso, quasi con indolenza, subendo la storia invece di dominarla, così chè colpisce ma spesso non conquista. Le due ore e mezza del film, però, scorrono senza noia.