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I graffiti, tratto estetico della cultura hip-hop

Intervista a Doppio, writer romano writers_296

E’ il tratto grafico, meglio conosciuto come graffito, il segno più evidente e tangibile dell’esistenza della cultura hip-hop. Perché cattura lo sguardo trasversalmente, ed è impossibile sottrarvisi. I tag (le firme), i disegni, gli scarabocchi dei cosiddetti writers campeggiano (e imbrattano, per lo più) prepotenti su muri, monumenti, vagoni della metro. Tutto ciò che è muratura, arredo urbano, mezzo di trasporto pubblico, viene preso di mira dai writers, che dietro l’alibi della libertà di espressione artistica, di fatto rivendicano il diritto di lasciare ovunque la propria testimonianza grafica. “Doppio”, che è uno dei graffitari romani più famosi, ha iniziato a ballare e rappare negli anni ’80, per poi dedicarsi al writing. Adesso fa il grafico web. Sulla questione dell’illegalità Doppio non si si sbilancia, ma i suoi trascorsi di writer da strada lo rendono incline alla comprensione.

Al di là della valenza artistica, rimane il fatto che dipingere o imbrattare i muri ed i treni è comunque un atto illegale...
“Chi adesso è legale, perché non fa più un lavoro di strada, è sicuramente partito dall’illegalità, quindi tende a perdonare. E comunque anche fra quelli che disegnano sui treni ci sono fior di artisti”.

Il writing è un’arte anticonformista perché illegale?
“Lo è perché si rischiano la galera, le multe, ma l’adrenalina che dà questo tipo di autocelebrazione ti fa sentire vivo e comunica agli altri la tua esistenza”.

Per la gente comune è un discorso poco comprensibile…
”Sicuramente, ma fra writers è una piccola guerra di conquista, la notorietà nel gruppo è data da quando il proprio nome gira in città”.

Dove c’è stata una forte repressione, come a New York (la famosa tolleranza zero di Rudolph Giuliani), il fenomeno si è contratto…
“Ovviamente. A Roma ci sono molti più treni dipinti che a NY”.

Quali sono le origini del writing?
“Il writing è nato grazie ad una concatenazione di avvenimenti che hanno fatto incontrare gruppi di latino–americani e di neri in locali di Harlem dove si ballava” - racconta Doppio. “Siamo verso la fine degli anni ‘70 a New York – continua – “I ragazzi dei ghetti cercano di divertirsi con quello che hanno, e inventano nuovi modi espressivi legati ai d.jing (l’arte della selezione musicale), al ballo o al bboying (comunemente denominata breakdance), al disegno o writing, che poté espandersi a dismisura grazie alla diffusione delle vernici spay. All’inizio c’è solo il desiderio di segnare il territorio, di scrivere ovunque il proprio nome. Poi si inizia a disegnare nei posti più visibili ed il più visibile in assoluto era la metropolitana. Si formano i primi gruppi, le prime crew. Tra i vari writers storici si riconosce al newyorkese Phase 2, che per molti anni ha vissuto anche in Italia, l’invenzione del lettering, ovvero una grafica della scrittura più strutturata e rispetto alla classiche scritte sui muri. E’ stato lui a far partire il movimento anche in Italia”.

Il fenomeno si diffonde rapidamente…
“Sì, grazie alla metro, che gira per tutta la città, ed alle televisioni, che ne diffondono le immagini. L’arte borghese americana comincia ad interessarsi al fenomeno, e molti writers iniziano ad esporre”.

Come è avvenuta la trasposizione in Europa?
“La scuola europea si è sviluppata in modo indipendente, ma si è ovviamente relazionata con la scuola madre”.

Fra tutti gli elementi dell’hip-hop il writing è quello che ha più risonanza. Perché?
“Perché mescola la componente “vandalica” a quella artistica”.

Non sono due valenze antitetiche?
“Sì, in pratica si creano due linee di tendenza: quelli che rimangono fedeli all’approccio originale, cioè scrivere ovunque il proprio nome, e quelli che cominciano a rendersi conto delle proprie capacità artistiche e passano ai lavori su tela e su commissione”.

Per ogni artista però ce ne sono 99 che imbrattano…
“Sì è vero. Ci sono dei grandi artisti, e poi quelli che, in modo molto egocentrico, vogliono lasciare il segno nel luogo più visibile, così il logo, magari grazie ad una ripresa di un Tg, fa il giro del mondo”.

Firmo quindi esisto…
”La guerra tra “tagger” è una piccola ragione di vita’.

Ma l’opera d’arte che si trova su un treno o su un muro è destinata a scomparire. Gli artisti in genere cercano l’immortalità…
“La caducità fa parte del gioco. Ci sono writers che dipingono un vagone che la mattina dopo sarà pulito. Ma loro fanno una foto e conservano la testimonianza”. Come i mandala tibetani che poi vengono cancellati…. ”Qui però rimane la testimonianza fotografica, che per il writer è una traccia fondamentale”.

Il writing italiano è riconoscibile, ha tratti caratteristici?
“L’Italia è arrivata dopo i paesi nordeuropei, ha assorbito molto da loro”.

I graffiti romani sono diversi da quelli milanesi?
“A Roma i disegni sono più grezzi, sporchi, molto New York anni ’70, invece a Milano si cerca il tratto più pulito. A Roma c’è molto più “bombing”, i ragazzi cercano di lasciare la propria firma, invece che cercare un tratto più personale. C’è più voglia di quantità che di qualità. E’ questo è un male, perché è un modo diseducato di fare writing”.

Perché il writing è nato con l’hip-hop e non con il punk o il rock?
“Credo per una serie di coincidenze. All’epoca in America si ascoltava molto funk , soul e rap. Ma uno dei writers romani più bravi, Napal, ad esempio, è un rockettaro”.

Il fenomeno è in espansione, ci sono delle scuole?
“Solo piccoli corsi di writers che cercano di insegnare ai bambini le basi del writing. Quanto al movimento, quello illegale è stabile, ma dove c’è una repressione forte, come a NY, il fenomeno è in contrazione".

Qual è la composizione sociale dei writers?
“Tendenzialmente la bassa borghesia, sicuramente nasce nelle periferie. Ma essendo una forma espressiva, è legata comunque alla curiosità ed all’istinto delle persone”.

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