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Un insano gesto

Quello di mettere a confronto giornalisti e utenti con disturbi mentali. Un'inziativa promossa a Trieste per chiarirsi e ascoltarsi. Perché capita che l’informazione faccia delle vittime anche con linguaggi sminuenti Foto di Marina Barnabà

Capita che l’informazione faccia delle vittime. Succede ai soggetti più deboli, spesso persone con disturbi mentali, vittime di linguaggi sminuenti (”psicolabili”) o di approssimazioni. “L’insano gesto” di Trieste è stato mettere giornalisti e utenti a confronto, per scegliere un linguaggio comune, per chiarirsi, per ascoltarsi.

“Voi con due parole ci potete uccidere. Noi non siamo la crisi! ”. E’ il grido di allarme che Madia Marangi lancia agli operatori dell’informazione. Madia vive a Martina Franca, Taranto, ed è presidente dell’associazione “Gabbiano” , un gruppo di auto-aiuto. Da anni vive in prima persona il disagio del disturbo mentale.

“C’è un accanimento da parte vostra -spiega- a fornire a chi vive il disagio un’immagine di ‘impossibilità. Abbiamo una grossa difficoltà a comunicare con voi. Dobbiamo renderci interessanti”.

Capita che a volte l'informazione faccia delle vittime. Succede ai soggetti socialmente più deboli che spesso rimangono “tritati” dai meccanismi di velocità ed immediatezza che regolano la corsa dei media. Succede per le vicende della salute mentale. Per la prima volta, in un incontro pubblico, ad “armi pari”, svoltosi al meeting mondiale “Trieste 2010, che cos’è ‘salute mentale’”, i giornalisti si confrontano con gli utenti del servizio mentale e imparano ad ascoltarli. Sull’onda lunga della legge 180 sono venuti allo scoperto uomini e donne che possono parlare in prima persona della propria sofferenza mentale , e con questo l’informazione deve fare i conti.

“Voi nella vostra normalità non fate informazione, mi ha detto una volta un giornalista, prosegue Madia. Allora come possiamo noi, che cerchiamo di curare la nostra patologia, e che aspiriamo ad una vita normale, fatta di matrimonio, lavoro stabile e affetti, fare informazione? Abbiamo paura di raccontarci, perché ci esponiamo al pregiudizio, che evitiamo solo se non rendiamo pubblica la storia della nostra sofferenza. Ma questa situazione fa parte di noi e dobbiamo essere accettati anche per questo. Un certo modo di fare informazione può fare lo stigma”.

Oggi il giornalismo sta diventando un titolazione compulsiva. Si fa solo sintesi. La comunicazione è violenta e superficiale, e a ricordarcelo è sempre Madia, che tempo fa ha inviato una lettera a una testata Rai, una lettera di rabbia. A Taranto un medico aveva ucciso moglie e due figlie, e poi si era tolto la vita. Soffriva di depressione. I giornali e televisioni titolarono: “Depresso stermina famiglia e si uccide”, e ancora : “I depressi sono incontrollabili”. “Non è vero” ci spiega Nadia, “Noi non siamo la malattia. Siamo persone che dietro hanno una storia, e vogliamo essere raccontati nella nostra totalità. Dovete imparare ad ascoltarci. Siamo stufi di subire l'informazione”.

E’ Beppe Giulietti , portavoce di Articolo 21, presente all’incontro, a raccogliere la sfida: una “carta per un giornalismo dalla speranza”, una Carta di Trieste, sulla scia di quelle di Treviso (a tutela dei minori) e di quella recente di Roma (contro le discriminazioni degli immigrati. ''Si tratta - ha spiegato - di superare gli stereotipi che spesso caratterizzano il linguaggio dei media nei confronti di chi vive in prima persona problemi di salute mentale. Spesso per descrivere situazioni e fatti di cronaca si usano termini come 'psicolabile' e 'squilibrato'. E le parole diventano trappole, nel mondo dell'informazione, gabbie dentro le quali - ha detto Giulietti - si rinchiudono fatti e persone''.

Foto di Marina Barnabà tratta dal sito del Dsm di Trieste