La rivoluzione di Basaglia


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Fabrizio Gifuni dà il volto al padre della 180

'L’unica cosa veramente 'folle' è stato il tentativo di far rivivere un personaggio, cercando di conquistarne lo sguardo, gli occhi, di farmi largo nella sua testa' b

Fabrizio Gifuni è Basaglia nella fiction televisiva “C’era una volta la città dei matti”.

Un ruolo difficile?
Ruolo complesso, ma entusiasmante, uno di quei ruoli che nella vita di un attore capita una sola volta. Ho accettato con entusiasmo, pur nella consapevolezza della grande difficoltà. La sceneggiatura aveva un punto di vista che mi convinceva molto: questo film non è una biografia su Basaglia, non è un film con un protagonista assoluto. Questo punto, che avrebbe dissuaso molti miei colleghi, per me è stata una delle cose più basagliane che si potessero concepire già in fase di scrittura. Tutto il lavoro di Basaglia è stato un’esperienza collettiva, una pagina di storia che si è tradotta in una delle poche rivoluzioni attuate in questo Paese. Una rivoluzione sociale, frutto del lavoro di tanti, anche se guidati dalla sua intelligenza straordinaria. E’ un film corale, c’è il punto di vista di Basaglia, ma anche quello dei pazienti, degli infermieri, delle famiglie. Il regista Marco Turco è riuscito a restituire questa complessità.

Come si è avvicinato al personaggio?
Ho studiato tutte le sue apparizioni in televisione e i suoi scritti. Ho esplorato anche i testi su cui si era formato, perché Basaglia era un eclettico, e non si interessava solo di medicina, ma anche di filosofia e di scienze umane. Le sue letture erano a 360 gradi. Confrontarsi con questi materiali è stato fondamentale. Un lavoro lungo, in cui ci vuole molta pazienza, ma questo è il ruolo dell’attore. L’unica cosa veramente “folle” è stato il tentativo di far rivivere un personaggio, cercando di conquistarne lo sguardo, gli occhi, di farmi largo nella sua testa, per cercare di capire le sue emozioni nelle situazioni che si è trovato a fronteggiare . Insomma, ho dovuto inventare un prototipo umano, in questo caso realmente esistito.

Girare in ambienti veri e con pazienti veri. Cosa ha comportato questo confronto continuo con la realtà?
Marco Turco ha preteso che si girasse in strutture reali, e non in teatri di posa. La parte di Gorizia nei vecchi padiglioni di Imola, la parte di Trieste a San Giovanni, la vera cittadella dei matti, che dà poi il titolo al film, un microcosmo nella città. Questo è un altro dei punti di vista basagliani che Marco ha introdotto all’interno della lavorazione di questo film. Poi, oltre a girare nell’ambiente, ha voluto mescolare continuamente esperienze umane e professionali diverse, a fianco di persone che hanno vissuto il disagio psichico e oggi restituite alla vita. Alcuni lavorano in compagnie teatrali o in laboratori artistici. C’è stato uno scambio irripetibile, emozionante. Un’esperienza unica, uno spirito realmente dialettico, autenticamente basagliano, in cui nessuno aveva un ruolo di superiorità rispetto a qualcuno. Destabilizzante per la macchina cinema che ha ruoli e gerarchie molto precise. Trovarci tutti in un clima “anarchico”, dove tutto si creava giorno per giorno, lasciandosi sorprendere dalle cose che accadevano. Ho avuto sempre l’impressione di lavorare con persone simili a me. Per chi era chiamato a recitare, era un monito costante a mettersi a nudo. Ho cercato di assorbire tutta la verità che quelle situazioni producevano. C. T.