di Sandro Calice AVATAR
di James Cameron, Usa 2009 (20th Century Fox)
Sam Worthington, Sigourney Weaver, Giovanni Ribisi, Michelle Rodriguez, Zoe Saldana, Joel David Moore, Laz Alonzo, Wes Studi, Stephen Lang, Peter Mensah, CCH Pounder, Dileep Rao, Matt Gerald, Scott Lawrence, Jacob Tomuri.
Abituiamoci. Il cinema che vedremo, soprattutto di fantascienza, assomiglierà sempre di più a questo. Non che sarà tutto così, né ce lo auguriamo, ma Cameron ha fissato uno standard da cui sarà difficile tornare indietro.
Siamo nel 2154. Jake Sully (Sam Worthington) è un ex marine costretto su una sedia a rotelle e quando il fratello gemello muore improvvisamente gli viene chiesto di sostituirlo. Jake viene trasportato a più di 4 anni luce dalla Terra, su Pandora, luna del pianeta Polyphemus nel sistema stellare di Alpha Centauri, ricca di Unobtainium, un minerale prezioso in grado di risolvere la crisi energetica sulla Terra. Peccato che Pandora sia abitata dai Na’vi, una razza pacifica che vive in armonia con la natura, esseri azzurri alti tre metri e con grandi occhi gialli, sotto il cui villaggio millenario c’è il più grande giacimento di Unobtainium. Il funzionario della RDA (Giovanni Ribisi), la multinazionale che ha investito miliardi nell’impresa, è combattuto se affidarsi alla soluzione militare del colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang) o a quella diplomatica della dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver). Grace, infatti, è la responsabile del “Programma Avatar”: dato che l’atmosfera di Pandora è tossica, sono stati creati degli organismi geneticamente modificati, degli avatar appunto, simili ai Na’vi, in cui gli umani possono trasferire la propria coscienza per muoversi liberamente sul pianeta e fraternizzare con gli indigeni. Jake è stato scelto perché il suo DNA è compatibile con l’avatar creato per il fratello morto. Ma la sua prima missione su Pandora rischia di costargli la vita, se non venisse salvato dalla bella Neytiri (Zoe Saldana), che prima lo scaccia, poi lo accoglie nel clan. Jake imparerà a conoscere un mondo e una civiltà che metteranno in discussione tutta la sua vita.
Cameron ha immaginato questo film una decina di anni fa. Poi si è reso conto che la tecnologia ancora non seguiva la sua immaginazione. Nel 2005 ha ripreso il progetto e il risultato è un’orgia sensoriale che sarebbe ingiusto ridurre a freddo calcolo. Computer grafica e 3D qui sono al servizio della nuova tecnica di performance capture utilizzata da Cameron per “trasferire” sugli esseri immaginari ogni singola mossa ed emozione degli attori in carne e ossa. Il regista ha poi utilizzato anche una sorta di telecamera virtuale per dirigere gli attori sugli sfondi creati al computer, proprio come fosse un set reale. Il realismo ottenuto non ha precedenti. Tanto che le due ore e tre quarti del film, anche con i non proprio comodi occhialini necessari per la visione, volano senza momenti di stanca.
Sarebbero facili, a questo punto, due riflessioni. La prima riguarda la comparazione di questo cinema con quello, diciamo così, classico. La seconda riguarda la trama, tutto sommato banale, che ricorda tutti i film sui buoni selvaggi e i cattivi conquistatori; che ammicca alle “mode” ambientaliste, ecologiste e new age (che già il Vaticano, con la solita modernità, si è affrettato a “scomunicare”); che, per non farsi mancare proprio nulla, condanna le guerre, l’Iraq su tutte, quando uno dei personaggi dice: ” Se qualcuno ha qualcosa che vuoi, prima lo rendi tuo nemico e poi te lo prendi”. Senza contare che quanto la prima parte del film è sognante e visionaria, tanto la seconda diventa troppo un action movie all’americana. Ma sarebbero riflessioni fuorvianti, in questo contesto. Perché ci sono invenzioni originalissime e la costruzione di una mitologia moderna, seppure somma di “miti” antichi, destinate a lasciare il segno. E perché dobbiamo probabilmente, senza sacrificare nulla ma semmai aggiungendo esperienze e modi, abituarci a vedere il cinema in modo diverso. Cameron stesso ci “tranquillizza” spiegando che non ha nessuna intenzione di abbandonare cinepresa e attori, ma semplicemente mettere a disposizione di questi ultimi tutti i “trucchi” e le possibilità espressive che le nuove tecnologie permettono. Dovremmo forse anche smetterla di usare “videogioco” o “fumetto” in senso spregiativo quando diciamo che un film ne ricorda codici e stili. Da Cameron, e da questo tipo di cinema, non ci aspettiamo profondità e introspezione psicologica. Ma se ci viene regalato divertimento e stupore, se ci viene tangenzialmente ricordato che il moderno incanto della tecnologia è sempre meno un gioco per bambini e sempre più il nostro futuro, chi l’ha detto che senza profondità non si possa fare un grande film?