di Sandro Calice
CAPITALISM: A LOVE STORY
di Michael Moore, Usa 2008 (Mikado Film)
Documentario
Il bello (e il brutto) dei film di Michael Moore è che mentre lo guardiamo diciamo: “Ah si, questo lo sapevo”. Segue indignazione, o risata liberatoria, e poi si esce dalla sala un po’ arrabbiati e un po’ sollevati, quasi che vederlo ci abbia assolto dai nostri impegni civili. Tanto che lui stesso, Moore, alla fine del film dice qualcosa del tipo:” Mi sono stancato di fare questi film da solo, datemi una mano”. E quando gli chiedono cosa resterà del suo lavoro, commenta laconico: “Popcorn e forconi”.
“Capitalism: a love story” arriva a vent’anni esatti da “Roger & Me”, primo, duro, atto d’accusa del regista alle grandi aziende e a come condizionano la politica e la vita di tutti noi. Qui Moore parte dal sogno americano, dal consumismo sfrenato, dal fatto che ai bambini americani hanno sempre insegnato che profitto e libera impresa vengono prima di tutto, che sono concetti presenti addirittura nella Bibbia. E dimostra, con interviste, dati, storie vere, volti disperati e faccie di bronzo che quel sogno è diventato un incubo. Che anche la chiesa (quella militante, non quella delle gerarchie) considera il capitalismo il male assoluto. E il male assoluto non si corregge, si elimina. Che la politica è totalmente assoggettata al potere economico, senza differenze di schieramenti: Bush e il suo governo, ovviamente, sono i principali artefici del recente disastro, ma il film dice che anche Obama ha ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale dalla Goldman Sachs, uno dei peggiori nemici del popolo americano, secondo il regista. Le grandi banche e aziende, insomma, sono le vere padrone dei nostri destini. Ma piccoli esempi ricordano che, in fondo, il popolo americano ha ancora forti dentro di sé gli anticorpi democratici giusti per reagire.
Intendiamoci, Moore non è un guru, né il suo film un trattato di economia. Il punto è che quel “questo lo sapevo” nel film viene messo in fila, sistematizzato, assumendo il contorno di un piano diabolico più che di uno sfortunato caso. La crisi non significa statistiche e grafici, ma persone che soffrono. E Moore ce le fa vedere. Anche con ironia, a suo modo. Un ottimo reportage montato con furbizia e molto mestiere. Vedetelo. E magari conserviamo un po’ di indignazione anche quando si riaccendono le luci in sala.