“Noi ci identifichiamo nella cosa'” è una frase estremamente concisa, tratta dagli scritti di Umberto Boccioni che potrebbe fare da epigrafe alla sua opera e al suo modo di concepire l'oggetto e quindi di rappresentarlo.
In fondo il punto di partenza della poetica di questo pittore è proprio in tale concetto, che altrove troviamo espresso in modo più articolato: ''Per noi il quadro è la vita stessa intuita nelle sue trasformazioni dentro all'oggetto e non al di fuori''.
'Pittura, scultura futuriste' il volume che raccoglie gli scritti di Boccioni è del 1914, ma le stesse idee sono già rintracciabili nei manifesti dei pittori futuristi di qualche anno prima. In quell'epoca l'idea di cogliere dal di dentro la realtà la incontriamo in vari movimenti d'avanguardia europei, cui lo stesso Boccioni fa riferimento, a cominciare dagli espressionisti e dai cubisti.
Ma mentre i primi cercano di penetrare una realtà cosmica indifferenziata e i secondi tentano di cogliere solo intellettualmente, al di là delle contingenze, l'essenza delle cose, per Boccioni il problema era quello di non perdere nulla della realtà, di coglierne gli elementi perenni o momentanei nel loro molteplice modo d'essere. È un discorso, quello dell'artista, che si collega alle idee allora molto diffuse del filosofo francese Bergson, incentrate sul concetto di ''slancio vitale'', vitalismo, senso del divenire, intuizione e coscienza della durata e del trasformarsi.
È attraverso di esso che è possibile superare le contraddizioni e gli ostacoli della materia, estremo tentativo del pittore futurista secondo Boccioni: ''concependo l'oggetto dal di dentro, cioè vivendolo, noi daremo la sua espansione, la sua forza, il suo manifestarsi, che creeranno simultaneamente la sua relazione con l' ambiente''. Bastano questi punti centrali per capire come Boccioni fosse, tra i futuristi, una delle personalità più coscienti e più a fondo coinvolte nella cultura e nel dibattito artistico del suo tempo, e l' unico tra i pittori a comprendere la possibilità di tradurre tutti gli aspetti della sua ''visione'' delle cose in termini di linguaggio plastico.
Il Novecento, per quanto riguarda l'arte italiana, avrebbe avuto probabilmente connotazioni diversi, se Boccioni - con la sua lucidità e ampiezza di visione - non fosse tragicamente scomparso a soli 34 anni, nel 1916, durante il servizio militare a Verona.
Era nato a Reggio Calabria il 19 ottobre 1882. Nel 1901 si trasferisce a Roma, dove con Severini, Sironi e Cambellotti frequenta lo studio di Balla, suo maestro di naturalismo divisionista. Di quel periodo resta poco o nulla. Da dipinti più tardi, vibranti e luminosi, è facile intuire cosa apprese.
Compie poi viaggi a Parigi, Mosca e varie città italiane, stabilendosi nel 1907 a Milano. Inizia allora il suo periodo più interessante, testimoniato dal famoso ''autoritratto'' di Brera e poi, nel 1910, dalla ''Città che sale'', considerata la sua prima cosa futurista. Nel 1911 comincia anche a scolpire.
Lo ''slancio vitale'', nel suo cogliere il divenire, si evolve inevitabilmente verso il definitivo, la morte. Nel contrasto tra idealismo e materialismo cadono i riferimenti concreti di sempre, col ''dinamismo plastico'' viene abolita la prospettiva tradizionale, le forme si fondono e si dividono nel loro perpetuo modificarsi. Non si parla solo di movimento esteriore, come più volte è stato fatto, accusando anche Boccioni di ''fare del cinematografo'', ma di movimento interiore, come egli precisa contestando sempre puntualmente quei critici. Nel ''coraggio di superarsi fino alla morte'', di cui egli stesso parla, emerge una forza drammatica, che non è disperazione, e si traduce in tensioni plastiche, in un linguaggio figurativo strettamente e coscientemente collegato alla cultura e all'arte europea a cavallo del secolo.
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