di Sandro Calice
DISTRICT 9
di Neil Blomkamp, Usa 2009 (Sony Pictures)
Sharlto Copley, David James, Jason Cope, Vanessa Haywood
Lo sappiamo, quando arriveranno gli alieni potranno accadere due cose: la guerra o una nuova era di progresso e pace. O no? Johannesburg, oggi. Circa vent’anni fa un’enorme astronave aliena si è fermata sopra la città. Per tre mesi gli umani hanno aspettato, poi sono entrati. E hanno trovato l’impensabile: oltre un milione di alieni, dall’aspetto simile a crostacei, sporchi, denutriti, malati, indifesi. Vengono messi momentaneamente in una zona alla periferia della città, il Distretto 9. Ma quella sistemazione diventa la loro casa per 20 anni e oggi, che sono più di due milioni, il governo ha deciso che devono andarsene. L’operazione viene affidata una società privata, la MNU, il cui unico interesse è cercare di far funzionare le potenti armi che i profughi avevano con sé, che però funzionano solo col Dna alieno. Marcus van der Merwe (Copley) è il funzionario incaricato, insieme con il mercenario Koobus (James), di entrare nel Distretto 9 per notificare gli sfratti agli alieni. Ma qualcosa va storto e all’improvviso Marcus diventa la persona più importante e ricercata del pianeta. Gli unici di cui si può fidare forse sono proprio gli alieni.
Neil Blomkamp, artista specializzato negli effetti visivi e regista di video musicali e pubblicità, è al suo film di esordio. E se si è scomodato il Signore degli anelli Peter Jackson per produrlo, un motivo c’è. Gli autori non vogliono sentir parlare di metafore, ma a partire dall’ambientazione in Sudafrica, che sia un’ottica originale ed efficace per parlare di profughi e rifugiati (con annessa “carretta dello spazio”), xenofobia, razzismo e segregazione sociale è un dato di fatto. L’ignoranza, la ferocia e l’avidità umana trovano sempre un “gradino” più basso su cui esercitare la violenza, e il dettaglio che si tratti di alieni produce un effetto straniante solo all’inizio. La tecnica, poi. Blomkamp utilizza con abilità tre punti di vista narrativi: la macchina da presa, anche a mano, le videocamere, i servizi dei telegiornali. L’effetto è un andamento serrato, in cui i linguaggi di fiction, reality e news si mescolano di continuo. Un’opera prima che vale sicuramente la pena di vedere.