Venezia 66


Stampa

Comencini, il tempo della donna

'Lo spazio bianco', in concorso. La guerra feroce di 'Lebanon' e quella surreale di Clooney

di Sandro Calice

C’è l’imbarazzo della scelta, quanto a qualità, tra i film presentati nella giornata di martedì a Venezia 66. In concorso “Lo spazio bianco” di Francesca Comencini e “Lebanon” di Samuel Maoz. Fuori concorso, invece, “The man who stare at goats” di Grant Heslov e “Brooklyn’s finest” di Antoine Fuqua, con Richard Gere, Don Cheadle, Ethan Hawke, Wesley Snipes ed Ellen Barkin.

Sul fronte del red carpet, dimenticando l’inizio al ribasso di questa edizione, con divetti televisivi e da gossip a occupare il tappeto rosso, e dopo l’exploit di Chavez con Oliver Stone, i riflettori sono tutti per George Clooney (protagonista del film di Heslov), al Lido con Elisabetta Canalis, che in conferenza stampa si è sentito chiedere di tutto tranne che del film, dalla sua presunta omosessualità, sulla quale scherzano anche gli amici Pitt e Damon, a quando sposerà la Canalis: “In vent’anni di incontri con la stampa – ha risposto – non mi hanno mai fatto questa domanda”.

LO SPAZIO BIANCO

>>> Guarda il trailer

di Francesca Comencini, Italia 2009 (01 Distribution)
Margherita Buy, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo, Salvatore Cantalupo, Guido Caprino, Gaetano Bruno, Maria Pajato.

C’è un rapporto, anche nell’attesa, tra madre e figlio che solo una donna comprende appieno, agli uomini, anche ai migliori, è uno spazio precluso. Maria è una donna sui quarant’anni che insegna nelle scuole serali a Napoli. E’ una donna fragile e indipendente, tenace e impaziente. Resta incinta di un uomo che però ha già un figlio e fugge. E partorisce al sesto mese. Maria deve aspettare, aspettare che Irene, la figlia, muoia o “nasca” definitivamente. Lo spazio bianco è questo limbo, questi 50 giorni affacciata all’incubatrice, questa attesa impotente sul cui esito nemmeno i medici hanno risposte. Maria non ha mai aspettato nella vita e il suo mondo inizia a franare. Ma gli amici, i suoi studenti adulti e anche le altre donne che con lei aspettano nello “spazio bianco”, persone semplici ma di buon senso, le fanno capire che deve riempire di vita quell’attesa perché Irene nasca.

“Lo spazio bianco”, che ha ricevuto molti applausi alla proiezione per la stampa, tratto dall'omonimo romanzo di Valeria Parrella, è un film commovente. “Questo lavoro – ha detto la regista - mi ha dato l’opportunità di parlare di ciò che conosco meglio, dell’essere madre”. E, nonostante la situazione, non c’è tragedia o pesantezza. La bella interpretazione della Buy, una sceneggiatura efficace e una colonna sonora intelligente rendono perfettamente l’idea che dietro una maternità, anche una che comincia male, ci sono una potenza, una gioia, un amore che rendono una vita, qualsiasi vita, degna di essere vissuta.

LEBANON

di Samuel Maoz. Israele, Francia, Germania 2009 (Celluloid Dreams)
Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen, Michael Moshonov, Zohar Strauss, Dudu Tasa, Asharaf Barhum, Reimond Amsalem

“Lebanon” è un pugno allo stomaco. Maoz lo ha scritto sulla base di ricordi personali che ha rimosso per vent’anni, prima di cominciare a fare pace con se stesso. Siamo nel giugno del 1982, prima guerra del Libano. Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile già bombardata dall’aviazione israeliana. A bordo del carro armato, Rinoceronte in codice, ci sono Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Herzl, l’addetto al caricamento, e Ygal, l’autista. Sono poco più che ventenni, non hanno non bramano di sacrificarsi in una guerra che non capiscono, hanno solo paura di morire. La cittadina in cui arrivano si rivela una trappola mortale, nella quale restano abbandonati dal comando centrale, accerchiati dalle truppe siriane e affidati a pericolosi falangisti, unica speranza di uscirne vivi.

L’intero film si svolge nello spazio asfittico e interminabile del carro armato e di un solo giorno. La guerra, feroce, impietosa, irrazionale, la vediamo tutta attraverso il mirino di Shmulik. Quattro ragazzi (quattro prove d’attore) con il potere di togliere la vita ma paradossalmente più vulnerabili degli altri, esposti come sono all’artiglieria nemica. Sanno cosa succede attorno (come lo spettatore) solo dal mirino del cannone e dalla radio con cui Jamil, il comandante dei parà, gli dà ordini. Il resto è tanfo, olio, vapore, urina e un rumore insopportabile. Le guerre sono quasi sempre ragazzi che non le vogliono fare, uomini che muoiono anche quando sopravvivono. Da vedere.

THE MEN WHO STARE AT GOATS

di Grant Heslov, Usa 2009 (Medusa)
George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges, Kevin Spacey

Già il titolo, “Gli uomini che fissano le capre”, dovrebbe prepararvi a quello che state per vedere. Bob Wilton (McGregor) è un giornalista in crisi perché la moglie lo ha lasciato. Per dimostrarle il suo valore, sperando di riconquistarla, decide di partire per l’Iraq. Qui incontra l’enigmatico Lyn Cassady (Clooney), che sostiene di aver fatto parte molti anni prima di una struttura segreta dell’esercito americano, ora disciolta, chiamata New Earth Army. L’unità era stata fondata da Bill Django (Bridges) e prevedeva l’uso di “monaci guerrieri”, chiamati cavalieri jedi, con poteri paranormali e psichici straordinari, come proiettare la mente lontano, passare attraverso i muri o far venire un infarto a una capra semplicemente fissandola negli occhi. Cassady rivela a Wilton che è lì perché ha una missione da compiere. Il giovane giornalista decide di seguirlo, sperando nella storia della sua vita. Del resto, cosa può mai accadergli di brutto con un cavaliere jedi al suo fianco?

“The man who stare at goats” è la commedia dark più divertente e intelligente vista finora in questa edizione della Mostra. Si ride di gusto dall’inizio alla fine. Ma attenzione a considerarla solo una commedia. Ispirato a una storia realmente accaduta, il film è infatti una satira contro la guerra, che gioca con le “filosofie” hippy e new age e la mitologia di “Star Wars” per mostrarne le follie e la stupidità. Non c’è un personaggio o una battuta fuori posto. E fa riflettere il fatto che, come dice Clooney, ”le cose che sullo schermo appaiono più stupide, in realtà sono le più vere”.