di Sandro CaliceARGO
di Ben Affleck, Usa 2012, drammatico (Warner Bros.)
Fotografia di Rodrigo Prieto
con Ben Affleck, John Goodman, Alan Arkin, Bryan Cranston, Kyle Chandler, Rory Cochrane, Kerry Bishe, Christopher Denham, Tate Donovan, Clea DuVall, Victor Garber, Zeljko Ivanek, Richard Kind, Scoot McNairy.
I film di Ben Affleck, quelli da regista, tendono sempre ad avere - come quelli del suo amico George Clooney, qui produttore - una impronta di “classico”, con particolare riferimento al cinema americano degli anni ’70 e a quella miscela di impegno e grande mestiere. “Argo”, basato su fatti realmente accaduti, non fa eccezione.
Alla fine del 1979 la rivoluzione iraniana promossa dall’ayatollah Khomeini raggiunge un punto critico quando l’Iran chiede agli Usa di estradare lo scià Reza Pahlevi. Di fronte al prevedibile rifiuto, il 4 novembre migliaia di giovani assaltano l’ambasciata americana a Teheran e prendono in ostaggio 52 persone. Sei funzionari, però, riescono a fuggire e si rifugiano nella residenza dell’ambasciatore canadese Ken Taylor. Non gli resta molto tempo prima che i rivoluzionari li scoprano e li catturino, o peggio. Viene chiesto alla Cia di occuparsene e la Cia mette in campo il suo miglior esfiltratore, Tony Mendez, uno specialista di fughe impossibili. Il governo però questa volta fatica ad autorizzare un’operazione che appare davvero folle: l’idea di Mendez è di andare a Teheran con documenti che dimostrino che i sei americani sono in realtà la troupe di un film di fantascienza, “Argo” appunto, venuta in Iran per un sopralluogo. E perché tutto sia perfetto, perché gli iraniani ci credano, anche Hollywood dev’essere della partita.
La storia di Argo venne declassificata solo nel 1997 dal presidente Clinton e conosciuta nel 2000, quando il vero Tony Mendez la raccontò nel libro “Master of disguise”. E da qui ha preso spunto Affleck (alla terza esperienza da regista dopo “Gone Baby Gone” e “The Town”), per una storia che effettivamente è incredibile e cinematografica già di suo. A cominciare dalla parte più naturalmente comica della vicenda, quella legata all’industria del cinema, al coinvolgimento del celebre truccatore John Chambers (premio Oscar onorario per le maschere del primo “Il pianeta delle scimmie”) e all’invenzione del carismatico e caustico vecchio produttore Lester Siegel, interpretati alla grande - rispettivamente - da John Goodman e Alan Arkin. La bravura di Affleck è quello di tenere insieme i registri del dramma e della commedia, senza scadere nemmeno per un attimo nella farsa o nel surreale, ma anzi con un racconto essenziale e lineare, una ricostruzione storica senza troppi giudizi, un thriller pulito ed efficace dove, anche se sappiamo come andrà a finire, la tensione resta sempre sulla giusta tacca. E la frase di Mark Twain che Alan Arkin ha tenuto sempre a mente per stare nel suo personaggio, vale perfettamente tanto per il film di Affleck quanto per il finto film all’interno del racconto: “L’unica differenza tra la realtà e la finzione è che la finzione dev’essere credibile”.