“Comunità” vegetali


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Coltivare erbe selvatiche in giardino

I raggruppamenti fra le piante non sono casuali. La Fitosociologia insegna, impariamo a guardare

di Laura Mandolesi Ferrini
(l.mandolesi@rai.it)

“La natura ci fornisce alcune ardite combinazioni di colori e vale la pena chiedersi perché siano sempre efficaci”. Così si esprimeva negli anni ’50 Silvia Crowe, una delle più importanti paesaggiste britanniche. La sua preoccupazione era quella di progettare giardini ma allo stesso tempo manteneva sempre uno sguardo attento su cosa accadeva fuori dai giardini, fra le piante cosiddette “spontanee”. Oltre all’approccio estetico da architetto insomma, Crowe era sensibile a “quella indefinibile personalità che decide se le piante stanno bene insieme”. Ma è appropriato dire che le piante “stanno bene insieme”? Sembra proprio di sì, visto che c’è una scienza che studia rapporti e alleanze che le piante sviluppano fra loro, tanto da parlare di “comunità vegetali”. Si chiama Fitosociologia e abbiamo chiesto a Davide Ubaldi, che insegna botanica ambientale a Bologna, se e come questa disciplina può aiutarci.

Professor Ubaldi, agli occhi di un profano è difficile capire che i raggruppamenti fra le piante non sono casuali, eppure la fitosociologia non è una scienza nuovissima, con i suoi circa cento anni. Si può dire che una disciplina tanto attenta alla dinamica delle comunità vegetali e al loro cambiamento, sia l’evoluzione naturale della tassonomia?
“Per quanto riguarda i rapporti tra Fitosociologia e Tassonomia è vero quello che lei afferma, ma nel senso che i fitosociologici sono utenti della Tassonomia per quanto concerne il riconoscimento delle specie. La Fitosociologia deriva dall’Ecologia vegetale ed è detta anche Ecologia della vegetazione e osserva gli ambienti e le piante di diversa specie che vi si trovano e che nell’insieme formano la fitocenosi. Queste non sono dovute al caso: in luoghi dalle caratteristiche simili per il tipo di suolo, l’altitudine, l’esposizione, la profondità dell’acqua, ecc. troviamo una composizione in specie poco variabile. Quindi possiamo dire, con una piccola approssimazione, che troviamo il medesimo tipo di fitocenosi. Un esempio di fitocenosi è il prato da sfalcio, tipico dei climi temperati umidi e dei suoli fertili e dolcemente inclinati. Tra i fattori che generano questi prati ha un ruolo importante l’azione dell’uomo. Il prato è costituito da specie spontanee, ma all’inizio occorre preparare il terreno, concimarlo, e seminare una specie foraggiera, per esempio l’erba medica. L’azione dell’uomo prosegue ad intervalli con lo sfalcio dell’erba. Intanto la natura non sta a guardare: in breve tempo arrivano per disseminazione spontanea numerose specie selvatiche di erbe pratensi che progressivamente sostituiscono la specie coltivata. Un esempio di collaborazione tra uomo e natura che genera una vegetazione utile e ricca di fiori che danno valore al foraggio e sapore e proprietà nutrizionali al latte ed ai suoi prodotti.

In Fitosociologia si studiano quindi anche vegetazioni seminaturali come quella dei prati da sfalcio e non solo quelle naturali o molto naturali come potrebbe essere una foresta vergine o una vegetazione di piante che si insediano nelle fessure delle pareti rocciose. Dirò di più, si studiano anche le vegetazioni di ambienti plasmati profondamente dall’uomo, come le fitocenosi di piante infestanti le colture. Negli ambienti agricoli vi sono anche comunità vegetali utili alle coltivazioni, in quanto offrono un rifugio alla fauna, tra cui insetti predatori di quelli nocivi alle piante coltivate. Si tratta di ritagli di vegetazione seminaturale, come siepi e incolti erbosi di margine o inframmezzati ai campi. Il riconoscimento delle specie è essenziale per questa materia, ed avviene utilizzando le Flore, libri in cui sono descritte tutte le piante di un territorio anche molto grande, ad esempio una intera nazione. Oggigiorno tutte le nazioni di tutti i continenti hanno almeno una Flora”.

Quindi, oggetto della ricerca sono anche situazioni meno “naturali”. Quanto dunque un’indagine può confermare una situazione ben conservata e quanto deve ridefinirla? Mi riferisco al problema delle cosiddette piante “esotiche invasive” che minacciano la biodiversità. Cosa accade per esempio quando un ailanto prende il sopravvento sulla macchia mediterranea?
“Fortunatamente la maggior parte delle piante esotiche naturalizzate non costituisce un pericolo per la biodiversità vegetale degli ambienti naturali, perché esse si collocano di preferenza in luoghi degradati e fortemente compromessi, almeno così succede nelle nostre regioni di clima temperato (ai tropici ed in parte nel Mediterraneo la situazione può essere differente). Una esotica che può diventare invasiva è, per esempio, la robinia, soprattutto nelle Prealpi (dove il clima è simile a quello della regione di origine, il Nordamerica sud-orientale). In Europa quest’albero non trova le specie competitrici e gli insetti che la parassitizzano, per cui tende ad essere invadente. Anche l’ailanto forma boschi ai margini dei campi, intorno a ruderi di vecchi edifici rurali crollati ecc., ambienti che hanno ben poco di naturale”.

Oggi, più la produzione vivaistica confeziona piante “in serie”, più prende piede un modo diverso di fare il giardinaggio, abbastanza attento all’ecologia. Come dire che quanto più viene meno l’impatto dell’ambiente naturale nel nostro quotidiano, tanto più cerchiamo risorse per recuperarlo. Il paesaggista britannico Dan Pearson suggerisce che le comunità vegetali “possono servire da modello ai nostri giardini”. Ha mai pensato che la fitosociologia possa essere presa come spunto non solo per leggere e decifrare la natura ma anche per costruire giardini “ecologicamente corretti”?
“I giardini sono il frutto della sensibilità estetica di chi li costruisce e direi che sia accettabile che vengano modellati come si vuole e con le piante che piacciono (altrimenti che divertimento c’è?). Nessun naturalista pretende che siano centri di ricostituzione di ambienti naturali e di conservazione di specie in pericolo, compito demandato ad altre istituzioni, come Parchi, Riserve naturali e Orti Botanici. Tuttavia, sarebbe raccomandabile di non eccedere con le novità botaniche importate da altri continenti, perché tra queste si potrebbe nascondere una specie invasiva. Se si vuole, si è liberi di imitare l’organizzazione di un orto botanico dove, accanto a collezioni di vario tema fitogeografico ed ecologico, si possono trovare ricostruzioni che mimano le strutture vegetazionali e gli ambienti naturali, ad esempio boschi, vegetazione delle rocce, vegetazione acquatica, ecc. Sulla scelta delle specie da usare in tali ricostruzioni coerenti col territorio, la Fitosociologia può avere un ruolo, considerando gli elenchi che figurano negli inventari di specie pubblicati per gli ambienti selvaggi della zona. Ma ovviamente si può essere liberi di fare anche dei mischioni fitogeografici, unendo specie di diverse parti del mondo aventi esigenze climatiche compatibili con quelle del luogo”.

In “Le vegetazioni erbacee” Lei sostiene che “la cosa più allettante di questo lavoro, come di tutte le vere ricerche scientifiche, è che i risultati non sono mai scontati e a volte sorprendenti rispetto alle ipotesi che eventualmente si erano fatte”. Ci vuole raccontare una di queste volte, cosa è successo?
“Questo richiederebbe come risposta un esempio troppo specialistico e non mi sembra il caso…L’argomento della classificazione delle fitocenosi è piuttosto ostico e lontano dall’esperienza comune. Quest’ultima si limita infatti a riconoscere delle fisionomie e generalmente nell’ambito dei soli boschi, che sono inquadrati in base alla presenza di una sola, o poche specie arboree dominanti. Per esempio: querceto, faggeto, pineta, boschi misti ecc. In Fitosociologia le cose sono più complesse, poiché si tiene conto si tutte le specie di volta in volta rilevate nelle varie fitocenosi, e in base a queste le fitocenosi stesse sono raggruppate in tipi di fitocenosi dette “associazioni”, alle quali si dà un nome convenzionale in forma latina. In piccolo (nei rilievi fitosociologici figurano al massimo alcune decine di specie) il lavoro necessario per arrivare alle associazioni è un po’ come quando i filologi classificano le lingue sulla base delle somiglianze e differenze lessicali: in questo caso devono confrontare interi vocabolari. Il metodo è comunque lo stesso e si chiama cluster analysis, e per applicarlo occorre l’aiuto di un programma computerizzato. Le informazioni tratte dal risultato della cluster mostrano in tutti i casi dei gradi di parentela tra gli oggetti classificati (fitocenosi, lingue o altro). Per le lingue i gradi di affinità esprimono fatti di significato soprattutto storico, mentre per le fitocenosi l’affinità è di tipo ecologico, nel senso che ogni associazione esprime un preciso tipo di ambiente con le sue specie di piante. Le associazioni si usano nella redazione di carte della vegetazione, ove ne è rappresentata con chiazze di colore la distribuzione ed estensione. Le carte ottenute in diverse epoche mostrano l’evoluzione del paesaggio vegetale e dell’ambiente".


Davide Ubaldi, professore associato del Dipartimento di Biologia evoluzionistica sperimentale dell'Università di Bologna, ha svolto attività di ricerca in vari settori nel campo della fitosociologia. Per primo ha inaugurato lo studio delle vegetazioni post-colturali nell'Appennino centro-settentrionale. Ha partecipato a indagini fitosociologiche sulla vegetazione dei terreni erosi a calanco nella valle del Basento (Basilicata) e alla realizzazione di carte della vegetazione in Emilia-Romagna e Valtellina. Con Aracne editrice ha pubblicato "Le vegetazioni erbacee e gli arbusteti italiani" (2008). Suo anche "La vegetazione boschiva d'Italia, Bologna, Clueb, 2008. Con la Clueb ha pubblicato quest’anno: “Guida allo studio della flora e della vegetazione”.