di Carla Toffoletti
Quello che sta succedendo oggi in Medio Oriente rischia di far riemergere lo spettro dell’antisemitismo.
Se ne parla molto. Io cerco di tenere i nervi saldi. Oggi in Europa c’è un antisemitismo diverso, che nasce sulle spinte delle comunità islamiche che hanno fatto proprie le parole d’ordine durissime del presidente iraniano Ahmadinejad, sull’annichilimento di Israele e hanno fatto manifestazioni cariche di violenza. Questo è un elemento nuovo su cui riflettere e che dipende direttamente dalla guerra appena conclusa a Gaza. Ma non si può dire che l’antisemitismo divampi. Non c’è antisemitismo di Stato. Ci sono a volte pochi cretini che parlano. E non direi nemmeno che tra le forze politiche tradizionali europee ci sia un aumento dell’antisemitismo. C’è questa nuova situazione delle comunità islamiche che sull’onda delle vicende di Gaza, sono diventate protagoniste di manifestazioni a cui una parte della sinistra estrema si è accodata. Questa è una situazione che va tenuta presente, ma certo non è né il ’33 ne’ il ’38.
Si sente un punto di riferimento per la cultura laica e progressista?
Per l’ebraismo sono un’ opinionista . Mi sento di sinistra, ma fuori dagli schieramenti politici, e sempre più moderata. Comunque penso che oggi ci sia molto da fare anche come ebrea e non solo come progressista. Abbiamo delle grandissime difficoltà. Abbiamo una situazione di trappola da cui bisogna uscire per il Medio Oriente. Abbiamo una situazione di difficoltà non sull’antisemitismo, ma sul razzismo che c’è in Italia, sul problema degli immigrati, degli zingari. Sono momenti difficili per il nostro Paese. Insomma c’è da fare. Speriamo in Obama, speriamo che cambi il nostro panorama mentale.
Come ha vissuto l’ultimo conflitto in Medio Oriente?
Con un senso di tragedia. Pur consapevole che le responsabilità non erano di Israele, per il suo inizio, resta il fatto che sugli ostaggi e sulla popolazione civile non si deve sparare. Ho vissuto come una tragedia quello che altri hanno vissuto come legittima difesa. Non riesco a vedere una via d’uscita, anche perché l’odio si è ulteriormente aggravato e la guerra non ha risolto i problemi che voleva risolvere, cioè quello di Hamas e quello del passaggio di armi e del lancio di missili su Israele. Spero che la posizione americana imponga delle scelte in Medio Oriente. Obama mi rende fiduciosa su possibili cambiamenti nel mondo.
Il 27 gennaio , la liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau. Che significato ha oggi questa data?
Si è molto insterilito il significato di questa data. Nel mondo ebraico ci si domanda molto come gestire questo proliferare di iniziative e se debbano essere gli ebrei a gestirlo o no. Io personalmente penso che non dovrebbero esserlo. E soprattutto come evitare che diventi una celebrazione ufficiale e priva di senso. Il problema è dove si vuole portare la memoria. La memoria di Auschwitz e della Shoah è una cosa che possiamo dare per acquisita. La storia è stata ricostruita e non può essere negata. Detto questo, come vogliamo usare questo lascito e questa riflessione sul passato? Che senso dobbiamo dargli? Forse questo non è ancora chiaro a tutti noi e non riusciamo bene a gestire questa straordinaria fioritura di scritti, di testimonianze, ricordi, costruzione della memoria, cambiamento dentro di noi, che quello che la consapevolezza di questa frattura nel ’900, nel nostro passato di ebrei e di non ebrei, ha.
Come trasmettere ai giovani questo lascito?
Forse non sollecitarli, non imporgliela. Però rispondere, rispondere. Mi ricordo che mia nipote Viviana , un giorno quando faceva la quinta elementare mi ha convocata, e mi ha detto: "Tu mi hai nascosto una cosa importantissima, la Shoah" e mi ha chiesto di spiegargliela, accusandomi di avergliela taciuta. Dall’altra parte forse, se c’è un senso di indifferenza, non vale la pena di spingere. Dobbiamo raccontare questa storia come se fosse una storia importante del nostro passato, ma non come se fosse una cosa su cui non si può dire ‘non mi interessa’. Non dobbiamo metterlo come obbligo morale per i giovani di studiarla e di saperla. Non può essere un’imposizione. Deve venire fuori da quello che si sa. Uno storico che si è occupato di didattica della Shoah, Chaumont, ha detto : "Se un insegnamento della Shoah non serve a cambiare colui che lo riceve, forse e’ meglio non darglielo".