di Sandro Calice
(s.calice@rai.it)
Lunedì 3 è la giornata di Takeshi Kitano con il gangster movie “Outrage beyond” e di Olivier Assayas con “Aprés mai” sulla Parigi post ’68, entrambi in competizione. Fuori concorso “Disconnect” di Alex Rubin, mentre nelle Giornate degli autori Stefano Mordini presenta “Acciaio”, tratto dal romanzo omonimo di Silvia Avallone, con Michele Riondino e Vittoria Puccini.
Martedì 4 tocca a un altro orientale, Kim Ki-duk, in concorso con “Pietà”, sul dramma dell’usura. Si scontra con la portoghese Valeria Sarmiento, che dirige John Malkovich in “Linhas de Wellington”, film in costume ambientato ai tempi di Napoleone. Nella sezione Orizzonti, invece, c’è un altro italiano, Leonardo Di Costanzo con “L’intervallo”.
APRES MAI (SOMETHING IN THE AIR)
di Olivier Assayas, Francia 2012 (MK2)
con Clément Métayer, Lola Créton, Félix Armand, Carole Combes, India Menuez, Hugo Conzelmann, Mathias Renou, André Marcon, Marco di Giorgio.
“Aprés mai” non è un film sul ’68, perlomeno nel senso di documento storico. Nonostante la minuziosa e colta ricostruzione compiuta da Assayas sulla base della sua memoria e quindi della sua autobiografia, infatti, “questo film – dice il regista – è un omaggio alla controcultura, all’underground e riguarda l’arte o come vivere nell’arte”.
La storia si apre sulla manifestazione del 9 febbraio 1971 a Place de Clichy, a Parigi. Gilles è un liceale preso nel gorgo politico e creativo dell’epoca, diviso tra impegno, storie d’amore e la sua passione per la pittura. Insieme agli amici di sempre intraprende un cammino che li porterà dall’Italia a Londra, con amori che cambieranno, strade che si divideranno, pericoli, esaltazioni, sconfitte e sogni. Non esiste (non poteva esistere) un sogno comune, oltre ovviamente il mito della rivoluzione. E ognuno dovrà, rischiando e in autonomia, scegliere il proprio destino.
Assayas (“L’acqua fredda”, “Irma Vep”, la miniserie tv “Carlos”) dice di credere poco all’autobiografia al cinema, i ricordi sono sempre “deformati, idealizzati, soprattutto quando si tratta dell’adolescenza”. E però in questa sorta di romanzo di formazione il regista mette un po’ di sé e della sua storia in ognuno dei personaggi. E ogni dettaglio è ricostruito con attenzione, dalle ambientazioni alle atmosfere, dalla free press alle parole, dai libri alla musica (ricercatissima la colonna sonora, con Assayas che ricorda: “La vera musica dell’estrema sinistra non era il rock, ma il free jazz”). Ne viene fuori il ritratto di un epoca densa di contraddizioni, piena di possibilità ma senza grande gioia, e forse anche “ottusa”, come solo ideologia e adolescenza sanno essere. Gilles, il protagonista, passa dalle parole d’ordine della rivoluzione al primo dubbio instillato dal libro di Simon Leys “Gli abiti nuovi del presidente Mao”. Contesta e critica il padre, sceneggiatore di serie tv su Maigret, ma è poi verso il cinema che va (e quando chiede a un compagno di strada se può usare la telecamera per fare un film di quell’esperienza, si sente rispondere: “Noi facciamo agit prop, non fiction”). Partecipa a volantinaggi e atti dimostrativi, ma resta sempre un passo indietro, ama le donne che incontra ma poi non ha il coraggio di lasciare la sua strada, che sente essere quella dell’arte. Gilles insomma è un tipico adolescente, uno che dice: “Vivo nell’immaginazione e se la realtà bussa alla mia porta, non apro”. E forse il merito maggiore di “Aprés mai” è proprio quello di fotografare una generazione che richiama, inevitabilmente, il paragone con quella attuale e con i clichés che il cinema gli appiccica addosso. Su chi stia “meglio” ognuno potrà dire la sua.
DISCONNECT
di Henry-Alex Rubin, Usa 2012 (Esclusive Media)
con Alexander Skarsgård, Michael Nyqvist, Jason Bateman, Andrea Riseborough, Hope Davis, Frank Grillo, Paula Patton, Max Thierot, Colin Ford, Jonah Bobo.
Uno aspetta Anderson e Malick, per dirne due. Poi arriva Rubin, finora solo coregista di “Who is Henry Jaglom?” e di “Murderball”, nomination agli Oscar come miglior documentario, e ti piazza il film più bello visto fino a questo momento alla Mostra del cinema. Peccato sia fuori concorso.
Siamo negli Stati Uniti, ma mai come in questo caso il luogo, e addirittura i nomi, non contano, perché siamo sempre connessi, ma troppo spesso non con la realtà. C’è il liceale introverso e senza amici, che però davanti al computer compone ed è un genio. Ci sono i suoi genitori, che lo amano ma chissà se lo conoscono. C’è la giornalista che entra per curiosità e per lavoro in una video chat dove conosce quel diciottenne disinibito. Ci sono i due bulletti che con un profilo Facebook falso cominciano a mandare messaggi al ragazzo introverso. C’è il padre vedovo di uno dei due che è un ex poliziotto, un brav’uomo che prova senza successo ad essere anche un bravo padre. C’è la coppia in crisi perché ha perso un figlio, e c’è lui che è morto dentro e lei che trova conforto nell’amicizia di uno sconosciuto in chat. Vite che si incrociano in Rete, Rete che ingarbuglia le vite, quei clic e bip così facili, così incoscienti, così lontani, che possono provocare tragedie vere.
La tecnologia ovviamente non è “cattiva” in sé, è come la usiamo che definisce noi e le nostre vite. Certo è che la sua pervasività e la facilità di accesso, sempre e dovunque, oltre che un uso la maggior parte delle volte inconsapevole se non proprio ignorante, aumenta le “tentazioni” e indebolisce il senso di responsabilità. Rubin ad ogni modo non esprime giudizi, stiano dunque tranquilli i paladini della bellezza e della purezza del web. E’ che la Rete, soprattutto i social network e le chat, sono diventate comunque il luogo moderno di compensazione della solitudine e addirittura di elaborazione del dolore. Questo racconta (molto bene) il regista, in quello che lui stesso definisce “una lettera d’amore a chi si sente imperfetto e umano”. Funziona tutto in “Disconnect”, la storia, i dialoghi, gli attori, la fotografia, la musica. Senza virtuosismi o furbizie Rubin convince e commuove.