di Sandro Calice
(s.calice@rai.it)
Oggi è il giorno del film probabilmente più atteso di tutta la Mostra, “The Master” di Paul Thomas Anderson, con Joaquim Phoenix e Philip Seymour Hoffman, sulla nascita di una setta religiosa. Ma è anche il giorno del primo italiano in concorso, “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì con Toni Servillo. Fuori concorso torna a Venezia Amos Gitai con “Lullaby to my father” e Liliana Cavani presenta il suo documentario sulle suore di clausura “Clarisse”.
La musica di Jackson, la fede di Seidl, la famiglia di Bahrani, la prima volta di Lo Cascio. Giornata composita quella di ieri alla Mostra del Cinema, che ha visto anche il Leone d’Oro alla carriera a Francesco Rosi. Il regista, ha ricevuto il premio da Giuseppe Tornatore (con il quale sta scrivendo un libro sui suoi film) e che a novembre compie 90 anni, commentando la presenza di Manoel De Oliveira, che a 104 anni lavora ancora, dice: “De Oliveira è unico, lo ammiro, mi piacciono i suoi film, ma non tutti sentono il bisogno di arrivare fino a 104 anni e girare film. Con i miei lavori ho anticipato certe necessità di conoscenza del nostro Paese, tutto sommato il mio l'ho fatto”. E sui registi italiani in linea con la sua idea di cinema, cita Mario Martone, Marco Tullio Giordana, Roberto Andò, Paolo Sorrentino e Daniele Vicari.
Ieri, dunque, sono stati due i film in concorso: “Paradise: Faith” dell’austriaco Ulrich Seidl, secondo episodio della “Trilogia Paradies”, in cui il regista si interroga sul significato del portare la croce, e “At any price” di Ramin Bahrani, con Dennis Quaid e l’idolo delle ragazzine Zac Efron, storia familiare ambientata nel Midwest americano di un padre alle prese con un figlio ribelle. Efron, assediato dai fan (ma urlavano di più i fotografi), ha confessato che ora vuole rischiare come i grandi divi e mettersi alla prova in ruoli più complessi. Fuori Concorso, ma sicuramente atteso, è “Bad 25”, il documentario di Spike Lee a 25 anni dall’uscita dell’album “Bad” di Michael Jackson. Nella sezione della Settimana della Critica, Luigi Lo Cascio presenta “La città ideale”, il suo primo film da regista.BAD 25
di Spike Lee, Usa 2012
con Mariah Carey, Quincy Jones, Martin Scorsese, Greg Phillinganes, Kanye West, Sheryl Crow, L.A. Reid, Chris Brown, Walter Yetnikoff, Larry Stessel, John Robinson, Cee Lo Green, Justin Bieber.
Sappiamo quasi tutto di Michael Jackson, ma il documentario di Spike Lee, a 25 anni esatti dalla pubblicazione dell’album “Bad” e a 3 anni dalla morte di quello che è stato uno dei più grandi talenti e fenomeni della musica pop del Novecento, è un atto d’amore che merita di essere visto.
Nel 1987 erano passati cinque anni dalla pubblicazione dell’album “Thriller”, un disco che polverizzò ogni record precedente, riscrisse la grammatica dei video musicali (guai a chiamarli videoclip, per Jackson erano cortometraggi) e già da allora divenne il disco più venduto della storia della musica. Fare di meglio o anche di simile era un’impresa impossibile. Ma Michael Jackson ci credette fin dall’inizio. Con la sua maniacale attenzione ai dettagli, scrisse circa 60 canzoni dalle quali dovevavo uscire le 18 dell’album, mise insieme una squadra con alcuni dei migliori professionisti dell’epoca, studiò, prese ispirazioni dovunque e contagiò col suo infantile e talentuoso ottimismo tutti quelli che lavoravano con lui. Nacque “Bad”, col biglietto da visita del cortometraggio della canzone girato da Martin Scorsese, con l’omaggio a Fred Astaire nel ballo di “Smooth criminal”, col video di ogni canzone concepito come un piccolo film, con la partecipazione di Stevie Wonder, e con quel “Man in the mirror” che sarebbe diventata la canzone che tutti avrebbero cantato il giorno che morì. Un tour che durò più di un anno e mezzo, oltre 30 milioni di copie vendute e un altro record, quello del maggior numero di singoli arrivati in vetta di Billboard Hot 100: cinque, eguagliato solo 22 anni dopo da Katy Perry.
Il documentario di Spike Lee racconta la genesi e la costruzione di quel disco, brano per brano, idea per idea, strumento per strumento, video per video, con molto materiale inedito e alcune divertenti curiosità. “Una lettera d’amore”, per dirla con le parole del regista: “Per tanto tempo ci siamo concentrati sulle sue canzoni, invece io volevo concentrarmi sul suo genio musicale, sul suo straordinario progetto creativo. Il dolore, perfino, che sta dietro questo capolavoro. Credo che i suoi figli, che non hanno visto il mio lavoro ma che lo vedranno presto, impareranno molto sul loro papà”. Non, quindi, una biografia che comprenda anche le vicende oscure della vita della star, solo una voluta e sentita celebrazione. Ci sono quasi tutti quelli che parteciparono al disco e quelli che furono influenzati negli anni a venire dal lavoro di Jackson, con qualche piccola caduta di tono, tipo l’opinione di Justin Bieber. Se decidete di andare a vederlo, tenete pronti i kleenex e i mocassini neri con i calzini bianchi!
PARADIES: GLAUBE (PARADISE: FAITH)
di Ulrich Seidl. Austria, Francia, Germania 2012 (Archibald Film)
con Maria Hofstätter, Nabil Saleh.
Lo “scandalo” non è la prospettiva giusta per parlare di questo film di Ulrich Seidl (“Canicola”) dedicato alla fede, secondo della trilogia “Paradies” dopo il primo intitolato all’amore. Ma soprattutto di scandalo si parlerà.
Annamaria lavora come tecnico radiologo in una cittadina austriaca. Ha un solo amore nella vita: Gesù. Per lui prega, si fustiga, sottopone il suo corpo a punizioni, dedica le vacanze a evangelizzare soprattutto gli immigrati, girando di casa in casa con una statuina della Madonna. E’ fede, sì, ma è anche passione, amore carnale addirittura, ossessione. Poi un giorno torna a casa dopo anni il marito, musulmano, paraplegico, violento. Per Annamaria è la prova che gli ha mandato Gesù, la croce che lei deve dimostrare di essere in grado di portare.
Lo scandalo, dicevamo. E’ una scena, breve e in penombra, in cui Annamaria (la bravissima Hofstätter) al culmine della sua passione accarezza, bacia e lecca un crocifisso di dimensioni considerevoli, prima di infilarlo sotto le coperte lasciandoci intuire che lo sta usando per masturbarsi. Questo è. “Può darsi che questo film scioccherà qualcuno – ha spiegato lo stesso regista - ma in definitiva è un film sull'amore portato all'estremo, la storia di una donna che cerca di soddisfare i propri desideri, in conflitto tra i valori cristiani, l'amore spirituale e quello sessuale”. Il film, in realtà, “indaga” ben poco sulla fede (sempre Seidl: “Non è una storia rappresentativa per tutta la fede cristiana, è una storia che può raccontare la fede”). Complice, infatti, anche l’elemento che tutto il film è stato molto lasciato all’improvvisazione degli attori e alla loro fisicità, “Paradise: Faith” sembra un film sul corpo più che sullo spirito, sul corpo esibito, umiliato, ferito, ridicolo anche, inadeguato. Il tutto guardato con un occhio cinico che se strappa a tratti sincere risate liberatorie, rende la visione faticosa e adatta a un pubblico di appassionati.