di Emanuela Gialli
(e.gialli@rai.it)
“L’esplorazione non si ferma”. Potrebbe essere tranquillamente l’affermazione di un veterano dei voli umani nello Spazio. Invece, è di Luca Parmitano, l’astronauta dell’ESA, nato a Paternò, in provincia di Catania, classe 1976, che a maggio del 2013 partirà con la Soyuz per raggiungere la Stazione spaziale internazionale. Con lui si apre una nuova generazione di astronauti, fortemente ispirata dalle gesta di Armstrong, scomparso pochi giorni fa, e Buzz Aldrin, i primi uomini a calpestare il suolo lunare nel 1969, con la missione Apollo 11, della Nasa. “Ha fatto dell’esplorazione dello Spazio un’arte”, dice Parmitano di Armstrong, “un’arte vissuta con discrezione e riservatezza”. E queste sono parole da veterano dello Spazio. In bocca al lupo, Parmitano.
A maggio del prossimo anno partirà per la Stazione Spaziale Internazionale e lei continua a prepararsi a Houston, al Johnson Space Center, ma anche al Centro Yuri Gagarin di Star City, nei pressi di Mosca, dove ora si trova. Lei dunque si divide tra queste due sedi, che storicamente sono tra le più rappresentative dell’esplorazione umana dello Spazio. A quale delle due culture si sente più vicino?
Posso dire di essere fortunato, perché in realtà come europeo, e come tutti i miei colleghi europei, noi siamo nel mezzo. Le nostre culture, quella italiana, quella francese, e così via, sono a metà fra la cultura americana e quella russa. In Russia, fino agli anni Novanta, la cultura italiana andava fortissimo e ancora l’Italia e gli italiani sono molto stimati e apprezzati qui. E in America, che è il nostro grande vicino, il nostro grande alleato. Io ho studiato in America e mia moglie è americana, quindi conosco questa cultura abbastanza bene. E comunque io mi trovo a mio agio a navigare in entrambe le culture, anche grazie alle lingue che mi aiutano. Certo, sono due culture tra loro diverse, ma non saprei dire a quale delle due mi sento più vicino.
Viaggiare nello Spazio vuol dire perdere un po’ l’aggancio alle culture individuali, alle culture con le quali di solito si convive e si collabora. E’ un altro approccio culturale quello del volo fuori dall’orbita terrestre, secondo lei, oppure si tratta di un ambito comunque ampiamente condiviso e generalizzato?
Entrambi gli aspetti. Tutti quanti noi siamo orientati verso l’unico obiettivo di raggiungere in sicurezza la Stazione e qui vivere in sicurezza e affrontare i sei mesi di permanenza a bordo nelle migliori condizioni possibili. Siamo tutti addestrati nello stesso modo. E’ ovvio che ognuno di noi viene da un mondo diverso e quindi serve anche quello spirito di adattamento per far fronte a quelle incomprensioni che possono nascere da barriere culturali, di lingua, di età, perché non siamo tutti della stessa generazione. Ed è interessante vedere come ognuno di noi modifica il proprio atteggiamento alla ricerca di un compromesso, che possa aiutare la convivenza.
Lei Parmitano è poco più che trentenne. E’ un bellissimo traguardo per un uomo. A trent’anni già nello Spazio e con compiti importanti, perché anche lei, come hanno fatto già Nespoli e Vittori, dovrà condurre esperimenti a bordo della Stazione spaziale sempre con l’obiettivo del miglioramento della qualità della vita sulla Terra, nella prospettiva di Marte. Ma lei su Marte ci andrebbe?
Certamente, senza dubbio. Anche se sarà richiesta una permanenza più lunga, lontano dalla famiglia. Ma questo è il sogno di un’intera generazione di astronauti. L’esplorazione non si può fermare. E io spero che il viaggio per la Stazione spaziale sia per me il primo di altri voli. La cosa più importante che possiamo fare noi adesso, gli astronauti della mia generazione, è preparare la strada per chi in futuro avrà la possibilità di andare più lontano e fare ancora meglio rispetto a quello che facciamo noi.
Lei rappresenta una nuova generazione di astronauti europei e italiani, anche rispetto a quella più recente di Nespoli e Vittori. Riagganciandoci alla scomparsa di Armstrong, che tipo di influenza ha avuto su di lei, sulla sua scelta professionale, l’arrivo dell’uomo sulla Luna?
Mi viene facile rispondere che l’influenza è stata evidente. Naturalmente io non ero ancora nato quando vi fu l’allunaggio e quindi non sono stato un diretto testimone di quel periodo. Ma l’evento è stato talmente impressionante che è rimasto e continua a restare nella memoria collettiva. Uno dei miei primi ricordi, da bambino, è sicuramente quello degli uomini che “balzavano” sulla Luna. Poi quello dei primi Shuttle. Armstrong è una figura principale per lo Spazio. Innanzitutto, come esempio di eroe inconsapevole. Ha fatto dell’esplorazione dello Spazio un’arte, vissuta con discrezione e riservatezza. Sì, la sua influenza su di me è stata grandissima. Tanto che per anni ho pensato che per fare l’astronauta dovessi diventare pilota. E infatti il mio percorso è stato quello classico: pilota militare, poi pilota di caccia, infine pilota sperimentatore.
Qual era il clima nelle ore successive alla notizia della morte di Armstrong?
Ho ricevuto la notizia qui al Centro Gagarin di Mosca quando era già sera, mentre ero insieme ai miei colleghi astronauti americani. Quello che ho visto è stato un senso di tristezza, di perdita, ma anche la grande consapevolezza di un uomo che ha vissuto la vita appieno, di una persona che tutti noi vorremmo emulare.