Giustizia civile


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'La recente riforma della Severino non serve, anzi è dannosa e il filtro in appello è a rischio di gravi ingiustizie'

Intervista al prof. Giorgio Costantino, ordinario di diritto processuale civile all’università di Roma Tre

di Fabrizio de Jorio

Professore, lei è un giurista da anni impegnato sul fronte delle riforme per una giustizia efficiente ed efficace. Cosa ne pensa della riforma del processo civile che il ministro della Giustizia ha definito epocale e che dovrebbe snellire il contenzioso civile?
La riforma dell’appello e della legge «Pinto» sono provvedimenti di mera immagine, che possono rivelarsi anche dannosi per l’efficienza della giustizia civile. In generale, la previsione di filtri per l’accesso alla giustizia e alle impugnazioni è fonte di inefficienza e di ritardi; la selezione delle domande e delle impugnazioni non richiede l’istituzione di un subprocedimento, ma impone una doverosa valutazione preliminare della fondatezza, prevista già dalla disciplina vigente. In secondo luogo, l’attribuzione al giudice del potere di liberarsi dei fascicoli, in base a criteri discrezionali, implica il rischio di abusi e, se sono previste forme di controllo, quello di un intasamento del giudizio di impugnazione.
Il più efficiente filtro per l’accesso alla Cassazione è la funzionalità dell’appello. In terzo luogo, la limitazione del filtro agli appelli «che non avrebbero ragionevoli possibilità di essere accolti», rinvia la decisione degli appelli fondati e, quindi la sopravvivenza delle sentenze di primo grado ingiuste e provvisoriamente esecutive. In quarto luogo, il velleitario filtro che si vorrebbe introdurre, prescinde dal problema dell’arretrato, che affligge le corti di appello. In quinto luogo, la fumosa formulazione dei motivi di appello si manifesta, per le energie e per le risorse che implica la sua comprensione, un fattore di inefficienza e di ritardi. In sesto luogo l’intervento sulla legge «Pinto» prescinde dall’intenso lavoro svolto dal Senato per attenuarne gli effetti: era in dirittura d’arrivo il d.d.l. n. 3125/S, per il quale la liquidazione sarebbe stata eseguita dalle prefetture. La liquidazione dell’indennità per irragionevole durata dei processi richiede l’intervento giudiziale anche in assenza di contestazioni; l’attribuzione a un singolo consigliere d’appello non risolve il problema; sarebbe stato più ragionevole limitare l’intervento del giudice ai casi nei quali il credito è controverso.

Tuttavia il “filtro” previsto sarà sempre concordato dal magistrato della Corte d’Appello che prima di emettere una pronuncia di inappellabilità dovrà sentire le parti.
Non è previsto il «consenso» delle parti. Queste, come è ovvio e doveroso, devono essere «sentite». Il che, inevitabilmente, rallenta il corso dei giudizi di appello, perché, prima di decidere sull’impugnazione è necessario verificare se questa ha una «ragionevole possibilità di essere accolta». Il giudice provvede d’ufficio nel contraddittorio delle parti: l’appellante, ovviamente, non sarà mai d’accordo ad una dichiarazione di inammissibilità, «fuori dei casi» in cui questa è prevista. Nell’attuale condizione, questa discrezionalità appare a forte rischio di gravi ingiustizie. Essa renderà vieppiù costoso l’accesso alla giustizia dopo il primo grado; implica il pagamento del contributi unificati, spesso per varie migliaia di euro, senza meno garantire un effettivo controllo di merito della decisione di primo grado. La nuova disciplina relazione prescinde dal complessivo sistema delle impugnazioni, con il rischio di scaricare sulla Corte di Cassazione gli appelli, dichiarati inammissibili e, quindi, con il rischio dell’aggravio dei carichi pendenti della medesima Corte, carichi che in questi anni si è cercato di contenere.

Eppure professore, la nuova normativa è ispirata al diritto in vigore in Germania, dove la giustizia funziona…
La disposizione sui motivi di appello riproduce, con alcune inesattezze, quella del Codice di procedura civile tedesco. Ma in Germania il contesto è totalmente diverso dal nostro. Innanzitutto le Corti d’Appello non sono così gravate come le nostre di centinaia di migliaia di procedimenti arretrati bensì è il luogo dove si svolge il controllo di legalità. Infatti, prima di rivolgersi alla Corte di Revisione (che equivale alla Cassazione italiana) in Germania si deve avere il permesso della stessa Corte d’Appello che ha giudicato il processo e che magari ha dato torto. L’esterofilia, non solo in materia di giustizia, costituisce, a mio avviso, uno dei mali del nostro Paese. Richiama alla mente la famosa gag di Alberto Sordi nel film “Un americano a Roma”, quando, dopo aver considerato la «marmalada» e la «motarda», aggredisce gli spaghetti (http://youtu.be/N8WuLcncbBM). Non si può prescindere dal contesto complessivo nel quale le disposizioni sono collocate. In Italia, la Costituzione attribuisce alla Corte di Cassazione il controllo di legalità su tutti i provvedimenti giurisdizionali. Non è prevista la garanzia del doppio grado di giurisdizione. L’appello potrebbe essere abolito, ma ciò implicherebbe un sovraccarico del lavoro della Corte di cassazione. Il migliore filtro per l’accesso a quest’ultima è la funzionalità dell’appello.

Seguendo il suo ragionamento, le Corti d’Appello e la Cassazione da questa riforma avranno un notevole aggravio di lavoro, anziché una boccata d’ossigeno?
Il tracollo delle corti di appello deriva dalla istituzione del giudice unico nel 1998, che ha determinato la confluenza in questi uffici delle impugnazioni contro i provvedimenti dei tribunali e delle soppresse preture, dalla competenza per la liquidazione dell’indennità per irragionevole durata del processo, per la quale, in alcuni distretti, il relativo contenzioso supera, in percentuale, quello ordinario, dalla previsione dei reclami in materia familiare e fallimentare, che implicano la predisposizione di corsie preferenziali. Si attende ancora l’impatto degli appelli nelle materie nelle quali il procedimento sommario di cognizione è imposto dalla legge. Il processo di appello, vuoi secondo il rito ordinario, vuoi secondo quello del lavoro, potrebbe, sulla carta, essere definito alla prima udienza. La possibilità di definire gli appelli in prima udienza è stata rafforzata da una legge del novembre 2011, ma le corti, oberate dall’arretrato, non sono state in grado di operare una selezione delle impugnazioni in funzione della definizione di quelle manifestamente infondate e di quelli manifestamente fondate. A maggior ragione, non lo sono per l’applicazione del meccanismo previsto dall’art. 348 bis c.p.c. Questo, però, implica i rischi appena segnalati, perché induce la tentazione di liberarsi del fascicolo e di rimettere alla Corte di legittimità l’onere di provvedere: l’«appellicidio» può trasformarsi in «cassazionicidio».

Ma allora scusi, cosa fare per snellire realmente la giustizia civile?
Innanzitutto, rinunciare a provvedimenti di mera immagine, che complicano la vita degli operatori e sono destinati a vita breve, come è avvenuto anche in recenti, infelici esperienze: basti ricordare la previsione di un’udienza di mero rinvio introdotta nel 1995 e soppressa nel 2006, il processo societario e l’estensione del rito del lavoro alle controversie per il risarcimento stradale, introdotti, rispettivamente, nel 2004 e nel 2006, e abrogati nel 2009, l’inappellabilità delle sentenze sulla opposizione alla esecuzione, prevista nel 2006 ed eliminata nel 2009, l’inammissibilità del ricorso per cassazione per insufficienza dei «quesiti», escogitata nel 2006 e soppressa nel 2009, l’estinzione dei giudizi di impugnazione pendenti da oltre due, poi tre, anni, imposta a novembre 2011, ed abrogata, dopo uno spreco di attività e di risorse delle cancellerie, a febbraio 2012. Le cause dell’inefficienza della giustizia civile risiedono prevalentemente nella imprevedibilità degli esiti, determinata anche dalle ripetute riforme, dalla opacità (secondo la definizione della Banca d’Italia) della legislazione, dalla irrazionale allocazione delle risorse, dalla insufficienza delle stesse, dal frequente turnover del personale (magistrati e funzionari di cancelleria), dall’inerzia delle pp.aa. nei pagamenti, dai flussi artificiosamente gonfiati in alcuni settori del contenzioso civile e da fenomeni di malcostume giudiziario, favoriti anche dalla legge sulla liquidazione dell’indennità per durata irragionevole del processo, che costituisce un incentivo alla moltiplicazione del contenzioso di lunga durata.

Gli interventi legislativi, in questo caso, risultano peggiori del male che dovrebbero curare?
Certo, perché ogni intervento che prescinda dalle cause e sia diretto, invece, ad incidere su alcuni effetti, non solo non appare risolutivo, ma finisce per determinare un ulteriore imbarbarimento della giustizia civile. La pendolarizzazione del quadro normativo rende incerta la governance della giustizia. Nonostante ciò, esistono, in Italia, uffici giudiziari nei quali la giustizia civile funziona: il che dimostra che il problema riguarda solo in parte la legge, quanto piuttosto l’organizzazione e l’attenzione al risultato, che non consiste nel liberarsi di un fascicolo, ma nel rendere giustizia. Basti ricordare, oltre alla nota esperienza del tribunale di Torino, presieduto da Mario Barbuto, ora presidente della Corte di appello, quanto è stato fatto nella XII sezione del tribunale di Roma presieduta dalla presidente, Antonella Di Florio, nella VIII sezione del tribunale di Milano, presieduta da Elena Riva Crugnola; le diverse, positive ed esemplari esperienze realizzate da Pasquale Liccardo a Bologna. Ma vi sono altre esperienze positive, che meriterebbero attenzione, anche al fine di favorirne la diffusione. Basti ricordare quanto avvenne alcuni anni addietro nel tribunale di Caltanissetta: quel tribunale doveva occuparsi del processo penale per la strage di Capaci ed ovviamente tutte le risorse furono concentrate nel settore penale; al civile furono assegnati magistrati di prima nomina; questi si organizzarono insieme per gestire il contenzioso e, fino a quando restarono lì, realizzarono significativi margini di efficienza. Poi andarono in altre sedi.

Insomma, secondo lei, la funzionalità della giustizia, al di là delle carenze strutturali e di organico, dipende molto dall’imprimatur del responsabile dell’ufficio giudiziario o dal presidente della sezione. Il metodo “Barbuto” “Di Florio”, “Liccardo”, ecc… si può applicare in tutti i distretti giudiziari?
Le esigenze, i problemi di ciascun ufficio sono diversi. Questi metodi di efficienza implicano inevitabilmente un adeguamento alle realtà locali, dalle quali non è ragionevole prescindere. Il presidente Barbuto è sovente invitato ad illustrare il suo metodo, ma le reazioni non sono sempre positive. Quando ero nel Comitato scientifico del Consiglio superiore della magistratura in base alle statistiche giudiziarie, invitavo gli autori delle esperienze positive ad illustrarle ed a confrontarsi; talvolta la discussione era accesa, perché ciascuno difendeva il proprio modello, ma poi si raggiungeva un punto d’incontro, che teneva conto delle diverse esigenze. Il modello del tribunale di Torino, avviato dal presidente Barbuto e proseguito dal presidente Luciano Panzani, è il più famoso. Ma meritano attenzione le esperienze realizzate a Genova dal presidente Claudio Viazzi, a Prato dal presidente Francescantonio Genovese, quella, difficile, di Reggio Calabria, quella, tentata e, in parte, realizzata a Napoli; quelle, risalenti, di Roma e di Verona, quest’ultima proseguita, con qualche difficoltà, dal presidente Gianfranco Gilardi. Le esperienze milanesi fanno storia a sé: ci si riferisce spesso al modello «ambrosiano». Non dispongo, attualmente, dei mezzi per conoscere tutte le esperienze positive e mi affido alla memoria. Ma le esperienze positive esistono e non solo nelle isole felici quale, ad esempio, il tribunale di Pordenone, presieduto da Franco Pedoja. Si tratta di ragionare sul concreto e non solo in funzione dell’immagine o dello scoop. Mi rendo, peraltro, conto che, nell’attuale crisi economica, la prevalente attenzione è dedicata ad altre questioni, cosicché, al di là delle enunciazioni di principio, la giustizia civile passa in secondo piano e si cede alla tentazione di risolvere i problemi reali con placebo, che possono anche rivelarsi velenosi, come quest’ultima, velleitaria riforma dell’appello. Questa, infatti, è stata inserita in un contesto di più ampio respiro, e, nonostante l’opposizione e i tentativi correttivi delle forze politiche che compongono la maggioranza, è stata approvata perché il Governo ha posto la fiducia sull’intero provvedimento. Ora dovrà essere comunque studiata ed applicata.

Il processo telematico funziona?
La estensione della posta elettronica certificata (PEC) alla giustizia ha richiesto un adeguamento del sistema, che aveva una propria autonomia; ha implicato un rallentamento della diffusione ed un ingente spreco di risorse. Il processo telematico si va lentamente diffondendo: da qualche mese è operativo il punto di accesso nel sito del ministero: http://pst.giustizia.it/PST/. Da qui si può verificare dove è già operativo e per quali materie. Il processo telematico, tuttavia, non consiste soltanto nella semplificazione delle comunicazioni e delle notificazioni; significa soprattutto trasparenza dell’attività degli uffici giudiziari e circolazione delle informazioni; contribuisce, quindi, a determinare la prevedibilità dell’esito e favorisce l’efficienza della giustizia. Occorre, tuttavia, pazienza ed attenzione alle inevitabili resistenze di chi non è abituato all’uso degli strumenti elettronici.