Giustizia civile


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Processo d'Appello, cosa cambia

Con il filtro in Appello, le cause civili di primo gado saranno immediatamente esecutive. Avvocati in trincea: a settembre sciopero confermato. Giudici quasi tutti d’accordo, anche se con qualche distinguo giustizia_296

di Fabrizio de Jorio
(fa.dejorio@rai.it)

Il ministro della Giustizia Paola Severino aveva annunciato una epocale riforma della giustizia civile e con la recente approvazione al Senato del Decreto sullo Sviluppo (legge n.83/2012) la giustizia civile, almeno nelle intenzioni del legislatore, sarà più celere con il filtro ai ricorsi in Appello e con un termine massimo di 6 anni per la conclusione del processo. "Con questa nuova normativa si è creato un filtro per l'appello, in modo che non tutte le pronunce di primo grado richiedano una seconda valutazione in appello", ha commentato il ministro Severino. Il Guardasigilli, tuttavia, ha ipotizzato anche altri benefici nella deflazione del contezioso civile: dall'estensione della mediazione obbligatoria alle controversie su incidenti stradali e di condominio.
La durata media dei processi civili in Italia è di circa sette/otto anni e i tribunali devono ancora smaltire un arretrato di circa 6 milioni di cause con alcuni tribunali come quello di Roma, Napoli, Palermo molto più gravati ed altri più virtuosi. E’ il caso del tribunale di Torino, il cui presidente Mario Barbuto ha dimezzato sia l’arretrato del secolo scorso sia la durata dei processi civili. Un miracolo che il presidente Barbuto, senza nascondere un filo di soddisfazione, a luglio ha raccontato a Televideo in un’intervista.

Comunque la riforma era nell’aria e anche il premier Mario Monti l’aveva posta come una delle priorità per evitare che a causa della eccessiva durata dei processi civili gli investitori scegliessero altri paesi dove investire. La lentezza della giustizia civile, secondo le stime di Banca d’Italia, costa al nostro Paese un punto percentuale di Pil all’anno, circa 16 miliardi di euro.

L’art 54 della legge n.83/2012 aggiunge nuovi articoli al Codice di procedura civile ma quello che interessa l’appello è il 348-bis. “L’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”. Con questa formula, di fatto, si crea una sorta di filtro che il giudice, a sua discrezione, può esercitare. Il ricorrente che si è visto condannare per una somma o un risarcimento che reputa non giusto può sempre ricorrere in Cassazione, seppur con qualche limitazione, come vedremo di seguito.

Lo spirito della legge, secondo il governo, intende evitare la sistematica violazione dei tempi di ragionevole durata del processo civile. In particolare, quanto all'appello, la soluzione, ispirata ai modelli inglese e tedesco, tecnicamente non è quella di impedire l’impugnazione di merito ma di limitarla, introducendo un filtro di inammissibilità incentrato su una prognosi di non ragionevole fondatezza del ricorso. A farla sarà lo stesso giudice dell'appello in via preliminare alla trattazione del ricorso. Su questo punto gli avvocati sono sul piede di guerra e a settembre è stato confermato lo sciopero contro la nuova normativa. Il professor Giorgio Costantino, ordinario di procedura civile all’Università di Roma Tre, critica il filtro all’appello e parla di “velleitaria riforma” nel suo complesso (vedi intervista) e ipotizza addirittura un peggioramento della situazione attuale con ulteriore allungamento dei tempi della giustizia, oltre all’amputazione delle garanzie per i cittadini.

Critico anche Maurizio de Tilla, presidente Oua (Organismo unitario avvocatura): “L’intervento legislativo sul filtro in appello e su ulteriori limiti per il giudizio in cassazione è un rimedio peggiore del male che si dice di voler curare. Di fatto, per eliminare il contenzioso si demoliscono i diritti dei cittadini e si dà spazio ad una confusione processuale senza precedenti”.

Il filtro di inammissibilità in appello, spiega de Tilla che conferma lo sciopero generale del 20 e 21 settembre, “finirà per accrescere la discrezionalità del giudice ed incrementare il contenzioso con i successivi possibili ricorsi per cassazione ‘per saltus’. Invece che apprestare strutture, personale e risorse snellendo e razionalizzando ulteriormente i riti e le competenze, si sceglie la strada di limitare, direttamente o indirettamente, l’accesso al giudizio di appello”. Non solo, ma si tratta di una riforma, “che difficilmente potrà trovare un’applicazione pratica, investendo valori della difesa e sistemi del processo che sono in aperto contrasto con la paradossale previsione di una pronuncia (soggettiva ed arbitraria) di inammissibilità dell’appello, che renderebbe ricorribile in Cassazione non più le sentenze di appello, ma viceversa quelle di primo grado”.

Per sintetizzare: il giudice, sentite le parti, se ritiene che non vi sono fondati motivi per l’Appello, dichiara l’inammissibilità con ordinanza. Diversamente procede alla trattazione, senza adottare alcun provvedimento. In effetti, alcuni magistrati sperimentano già da tempo ciò che la nuova legge ha stabilito sul filtro in appello. Uno dei pionieri è un magistrato di Roma, il presidente della III sezione della Corte d’Appello civile, Filippo Paone, (vedere intervista) che spiega come la sua sezione adotta il “filtro” già da tempo con successo, selezionando le impugnazioni meritevoli di essere trattate. Anche perché nel 68% dei casi l'appello si conclude, nei processi civili, con la conferma del giudizio di primo grado.

Per i magistrati è una misura che mira ad alleggerire il carico di lavoro delle corti di appello con la conseguente riduzione dei tempi dei giudizi, con effetti positivi auspicati anche per il sistema economico e per le imprese che operano in Italia. Ma bisognerà vedere che impatto avrà sulla Corte di Cassazione, visto che i giudizi di primo grado che il giudice ritiene non meritevoli di appello, possono comunque riversarsi sulle sezioni dei giudici di Cassazione. La situazione della giustizia in Italia interessa non solo il nostro Paese ma l’intera comunità europea. Tanto che a maggio, in occasione dell’incontro tra il ministro della Giustizia, Paola Severino e Nicolas Bratza, presidente della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, si è parlato esclusivamente della situazione della giustizia in Italia. Il Guardasigilli annunciò alcune riforme imminenti tra le quali, oltre al ricorso alla mediazione civile e commerciale, quella varata con il decreto Sviluppo e che oggi è accolta con una pluralità di opinioni diametralmente opposte: gli avvocati contrari mentre tra i magistrati le opinioni, come illustreremo più avanti, sono eterogenee, con una prevalenza dei favorevoli alla nuova normativa, i cui effetti, concordano generalmente gli operatori della giustizia, si potranno vedere dopo un anno dall’entrata in vigore della nuova normativa.

Cassazione: anche qui c’è un limite ai ricorsi
Da notare che l’art. 54 della legge 83/2012 prevede che quando la causa viene dichiarata inammissibile dal giudice d’Appello, il ricorso per Cassazione viene presentato non nei confronti dell'ordinanza pronunciata dal giudice dell'appello, ma, come prescrive il nuovo articolo del Cpc 348-ter, «avverso il provvedimento di primo grado». Se l'ordinanza di inammissibilità, ma anche la sentenza d'appello impugnata in Cassazione, «è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata», non sarà consentito il ricorso in Cassazione per contestare un eventuale «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Questo rappresenta un ulteriore limite per i ricorsi in Cassazione.

Stabilito per legge il tempo massimo dei processi: 6 anni
Altra novità riguarda la ragionevole durata del processo civile. L’art. 55 che modifica la legge n. 89 del 2001, stabilisce che “si considera rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore ai 6 anni”. In pratica tre anni per il primo grado, due per l’Appello e uno per il ricorso in Cassazione. L’indennizzo arriva fino a 1500 euro l’anno per le cause che durano più di 6 anni e viene concesso dal giudice alla parte che lo richiede entro 30 giorni dalla presentazione della documentazione per l’equa riparazione, secondo i criteri civilistici ai sensi dell’art. 2056 del Codice civile. La legge prevede 6 anni il tempo massimo per arrivare ad una definizione del procedimento civile oltre i quali scatta l’equo indennizzo. Attenti però: se la causa dura più di 6 anni ma la “colpa” è addebitabile ad una delle parti per via della condotta non diligente, dilatoria o finanche abusiva, cioè quando le procedure sono usate al solo fine di rinviare i tempi della causa, non ci sarà alcun indennizzo.

La nuova legge obbliga la P.A. a pagare “senza dilazioni” entro i limiti delle risorse disponibili. La norma ha come obiettivo da una parte la razionalizzazione del carico di lavoro che grava sulle Corti d’Appello (competenti per le richieste di indennizzo), dall’altro mira a contenere gli oneri a carico delle casse dello Stato che nel 2011 ha dovuto pagare indennizzi per oltre 200 milioni di euro.

Per Pasquale Liccardo, presidente della Sezione fallimentare del tribunale di Bologna, 6 anni sono sufficienti per definire un procedimento. Ma ciò è possibile solo se “si investe sul processo: in Italia abbiamo una crisi del processo che è prima di tutto crisi dell’organizzazione che sostiene il processo stesso”. In pratica “la diminuzione progressiva del personale di cancelleria che rappresenta il cardine dell’organizzazione giudiziaria” dice Liccardo, “rende difficile e gravoso il lavoro dei magistrati che spesso sono costretti a lavorare da soli senza l’ausilio di una segretaria o di un collaboratore al quale delegare parte delle attività per concentrarsi sullo studio degli atti e la stesura delle sentenze”. Per Liccardo, che è stato il giudice della sentenza Parmalat, con centinaia di parti in causa, “qualsiasi riforma del processo che non ridisegni l’organizzazione del giudice creando un ufficio per il processo, al quale il giudice possa demandare alcune attività materiali, è destinata all’insuccesso”.

Nel caso della sentenza Parmalat, Liccardo, insieme al collega Coscioni, con il sostegno del presidente del tribunale di Parma, Piscopo, hanno lavorato “notte e giorno” avvalendosi della collaborazione di 6 coadiutori con i quail sono riusciti a “sistematizzare tutte le attività da svolgere all’interno della procedura, riuscendo a chiudere tutti gli stati passivi delle numerose società del gruppo Parmalat, entro il 16 dicembre del 2004”. Un modello di efficienza e rapidità che Liccardo ritiene sia possible applicare in tutti gli uffici giudiziari a patto che “si investa nell’ufficio del processo concedendo strumenti e personale”. La procedura Parmalat, per dare un metro di paragone, è stata 5 volte più grande della Enron, con 19 miliardi di passivo.”Questa è la prova che quando un ufficio del giudice è organizzato e può contare su collaboratori e personale di cancelleria, le sentenze si possono emettere nei tyempi stabiliti dalla legge”.

L’Italia è il paese più condannato in Europa da parte della Corte europea di Strasburgo, per la eccessiva durata dei processi e per le reiterate violazioni di legge. Recentemente la Banca Mondiale nel rapporto economico Doing Business, ha posto l’Italia al 158° posto su 183 paesi nella classifica per efficienza della Giustizia civile, in particolare per la tutela dei contratti e delle imprese. Una classifica che vede il nostro paese dietro al Gabon! Un giudizio civile per la tutela di un’obbligazione contrattuale dura in media, in primo grado oltre 1200 giorni, mentre in Germania la questione si risolve in poco più di 380 giorni e in Francia addirittura in meno di un anno.

Nella foto in basso: Maurizio de Tilla, presidente Oua (Organismo unitario avvocatura)