Musica - i consigli della settimana


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Dinosauri all’attacco

Nuovi cd per gli inossidabili Patti Smith e Neil Young

di Maurizio Iorio

La domanda, che viene spontanea, è se il mercato abbia ancora uno spazio dignitoso per accogliere le opere di musicisti d’antan, ultrasessantenni, quelli che avrebbero già dovuto appendere le chitarre al chiodo e darsi al golf. O alle pantofole e caminetto. La risposta, dopo aver visto all’opera un sessantaduenne da combattimento come Bruce Springsteen e aver constatato l’età media del suo pubblico, bassa oltre ogni più rosea aspettativa, è che i vecchi Soloni della musica hanno ancora molte cose da dire, e i giovani molte orecchie pronte ad ascoltare. E se i fenomeni da top ten vengono selezionati dai programmi come X factor, buttati in pasto al mercato e digeriti con la velocità con cui si digerisce un Bigmac, i vecchi leoni, quelli che hanno il proprio nome inciso nelle pietre miliari che marcano la lunga via del rock (Mccartney ha compiuto 70 anni qualche giorno fa), continuano imperterriti a produrre piccoli capolavori, tanto per tener fede ad un vecchio adagio, tanto banale quanto veritiero: “la classe non è acqua”. Quindi la risposta alla domanda è: sì, in mancanza di eredi degni, sono ancora i vecchi dinosauri i a tenere alto il nome del rock, e lo spazio della loro audience si sta ampliando. Dopo un decennio di musica trash, le giovani generazioni sono alla ricerca di autori, oltre che di musicisti, di gente che sappia non solo suonare, ma che sappia soprattutto parlare, coniugare in forma semplice un linciaggio alto, che sintetizzi valori universali, e non generazionali. E’ per questo che i vari Springsteen, Patti Smith, Neil Young, giocheranno da titolari ancora a lungo.

Patti Smith
Banga (Columbia)

La vecchia musa del Village, introversa ispiratrice e compagna d’arte di gente come Lou Reed, mente pensante della new wave newyorkese, anima culturale dell’intellighentia radical-chic della Grande Mela, torna un nuovo album di inediti, a distanza di otto anni dal precedente “Trampin”. Non che nel frattempo sia stata con le mani in mano. Patti Smith è una donna multitasking, ma ad un certo punto deve aver sentito l’esigenza di mettere nero su bianco qualche idea nuova. La sacerdotessa maledetta del rock, ormai sessantaseienne, pur non sostenuta da una voce degna di tale titolo, è riuscita di nuovo a lasciate il segno, trasmettendo ai posteri una manciata di gioielli da abbecedario del rock. Nonostante la singora non sia certo l’emblema della femminilità, la grazia con cui disegna le 11 tracce che compongono l’album è l’essenza della femminilità. C’è molta Italia in “Banga”: il brano d’apertura dedicato ad Amerigo Vespucci (“Amerigo”), un altro ispirato ad un quadro di Piero della Francesca e composto ad Arezzo, addirittura l’ispirazione complessiva che le è venuta sulla tolda della Costa Concordia, ovviamente prima del caso Schettino. C’è “Maria”, una canzone dedicata a Maria Schneider (la protagonista scomparsa di “Ultimo Tango a Parigi”) e “This is the girl” sdedicata ad Amy Winehouse, e c’è anche una cover di “After the gold rush “ di Nel Young, che compie giusto 42 anni. Gran bell’album, ben suonato dalla band che accompagna la poetessa da decenni, con il gran maestro Lenny Kaye a sovrintendere le operazioni principali, e l’ex-Television Tom Verlaine e ricamare assoli di chitarra come Iddio comanda. Disco d’altri tempi? Forse. Questo vuol dire che gli altri tempi sono l’oggi.

Neil Young
Americana (Reprise)

Quando uno comincia a scrivere la propria biografia, si trova in quel’età nella quale si leggono i necrologi per vedere se ci sono i nomi degli amici (l’ha detta, più o meno in questo modo, lo scrittore Christopher Hitchens). Molti altri, invece di scrivere biografie, preferiscono rimettere mano al proprio campionario formativo per riconnettere i pezzi della propria storia musicale, e dare un senso al programma scolastico della propria gioventù. L’ha fatto Springsteen, con le sue “Seeger Sessions” , il buon ex-vecchio Johnny Cash, con i sei volumi di “ American Recordings” e un’altra bella fetta di musicisti americani, che rivangano il passato come si fa con le zolle, per far nascere nuova vita. Il vecchio hippie canadese è andato a ripescare una bella sequela di traditionals, molti dei quali assai famosi anche da noi, come “Clementine”, o la “zeppeliniana” “Gallows Pole”, o vecchi brani della tradizione folk , come “Oh Susanna” e “This land is your land”, del padre dei padri del cantautorato americano, Woody Guthrie. C’è addirittura “God save the queen”, tanto per ricordare ai più che le radici sono in terra d’Albione. Tutta roba sentita e risentita, spezzoni della cultura popolare americana (e in parte anche nostra) che la televisione, il cinema, e la radio hanno diffuso in modo planetario. Verrebbe da dire: embè? Dov’è la novità? La novità sta nella band più “rugged” del pianeta”, i Crazy Horse, qui riuniti al completo dopo una quindicina d’anni, che disossano quei brani con furia iconoclasta. “Americana” non è un omaggio alla musica popolare a stelle e strisce, tantomeno il suo Bignami. Neil Young non confeziona nuovi abiti per vecchi manichini, non ha la stoffa dell’archivista. Dà la sveglia al suo combo, che suona più arrugginito di sempre, e ritaglia immagini della vecchia America, da Fort Apache a Geronimo, dai vagoni merci dell’Armtrack che ospitavano gli hobos ai saloon del vecchio west, facendo scorrere una sequenza di fotogrammi che sintetizzano 200 anni di storia: praterie e migrazioni, contadini e grande depressione, american dream e Vietnam, utopie hippie e fallimenti economici. Il tutto in un pugno di canzoni da strada.