di Bianca Biancastri
(b.biancastri@rai.it) Fuggono dalla guerra che non è mai finita, attraversano villaggi che continuano a essere bombardati. Arrivano, camminando per tre settimane a piedi, mangiando radici e datteri del deserto. Danno il poco cibo che possiedono ai bambini che comunque si ammalano, senza acqua. C’è un flusso di mille rifugiati al giorno, in un contesto in cui mancano ripari, acqua potabile e cibo, e con la stagione delle piogge alle porte. Questa la “crisi umanitaria annunciata” denunciata da Medici senza frontiere in Sud Sudan, e in particolare negli Stati di Upper Nile e di Unity dove dal novembre scorso sono giunti circa 150 mila rifugiati, in fuga dal vicino Sudan.
Il direttore di Msf Italia, Kostas Moschochoritis, chiede alla comunità internazionale di rispondere all’emergenza in Sud Sudan, che il 9 luglio celebrerà il primo anno di indipendenza ma dove continuano a fronteggiarsi esercito regolare e gruppi armati di opposizione che si contendono la zona al confine, ricca di petrolio. Decine di migliaia di donne, uomini e bambini cercano la salvezza nei campi al di là della frontiera che sono sovraffollati e privi di generi di prima necessità. “Non ho mai visto nulla di simile. Ho visto bambini e adulti morire per disidratazione o diarrea acuta, dopo aver percorso decine di chilometri a piedi senza cibo e acqua, a una temperatura di oltre quaranta gradi”, testimonia in una conferenza stampa Chiara Burzio, operatrice dell’Ong, dopo essere rientrata dal campo di Jamam, nello Stato dell’Upper Nile. “Ad allarmare è, oltre alla scarsità di cibo e ai ripari inadeguati, la mancanza di acqua, la cui distribuzione è ben al di sotto degli standard internazionali”.
“L’acqua si sta esaurendo, e quando non ci sarà più migliaia di persone resteranno senza”, denuncia Chiara Burzio,infermiera di Medici senza frontiere. “Vediamo molte cose difficili da accettare. Entrando nel campo, si cominciano a vedere persone sparse, ma poi all’improvviso ti trovi di fronte a un mare di gente, la maggior parte al riparo sotto pezzi di plastica. Molti sono disidratati. Offrire loro dell’acqua e vedere quanto velocemente essi bevono e quanto hanno bisogno di acqua è qualcosa che ti tocca profondamente”, racconta. “La cosa più difficile è che qui tutti avrebbero bisogno di cure e di assistenza di qualche tipo, ma a causa del tempo e delle risorse limitate, possiamo aiutare un numero ristretto di persone. Dobbiamo concentrare le nostre energie sui casi più critici e fare delle scelte. Ma questo è difficile, soprattutto quando si sa quanto disperata sia la situazione di tutti”, racconta Chiara Burzio. “Queste persone hanno problemi che sarebbero facilmente curabili. Io lavoro principalmente con i bambini malnutriti qui a Jamam che sono come tutti gli altri bambini: quando sono malnutriti hanno le facce tristi e non sorridono ma non appena cominciano ad aumentare di peso, vedi la trasformazione, cominciano a ridere, a giocare…. Le persone dei campi sono persone normali che hanno avuto una vita normale. Non sono ricchi ma avevano case e beni e poi un giorno hanno dovuto fuggire dalla guerra. Quelli più fortunati e abbastanza forti sono arrivati in uno di questi campi. Gli altri sono morti lungo la strada”, denuncia l’operatrice di Medici senza frontiere, spiegando che “ci sono soluzioni per tutti questi problemi. E’ solo che molto resta da fare, in fretta”.
Medici senza frontiere ha avviato una massiccia risposta all’emergenza nei campi rifugiati, con oltre 50 operatori internazionali e più di 300 operatori locali. L’Ong sta effettuando più di 900 visite mediche al giorno, fornendo anche cure mediche urgenti per i malati più gravi tra i nuovi arrivati. Msf è inoltre impegnata nella prevenzione dei focolai di morbillo, con campagne di vaccinazione per i bambini sotto i 15 anni.