di Emanuela Gialli
Il nuovo processo in materia di licenziamenti che il governo ha delineato nella prima stesura del ddl di riforma del lavoro, nelle ultime ore oggetto di alcuni ripensamenti, dovrebbe avere come obiettivo, o “ratio”, secondo il lessico di giuristi e magistrati, la brevità del procedimento, in modo da convincere gli imprenditori italiani ad assumere dipendenti e quelli stranieri a investire in Italia. Ma avvocati e giudici non sono d’accordo e mercoledì 9 maggio si sono ritrovati a Roma, alla Scuola di Specializzazione dell'associazione AGI-Avvocati Giuslavoristi Italiani, per lanciare un segnale d’allarme. La riforma così come è stata fatta è un “pasticcio”, afferma a Televideo l’avvocato Filippo Maria Giorgi del Foro di Roma: le nuove norme da un lato comprimono i termini per presentare i ricorsi, da 270 a 180 giorni, e dall’altro aumentano i gradi di giudizio. E il rischio è che gli investitori stranieri si tengano ancora più lontani dal nostro Paese.
Il disegno di legge, che è all’esame del Senato, introduce un nuovo tipo di processo, più rapido, in caso di licenziamento del lavoratore. E’ abbreviato, come sostengono gli esponenti del governo, in che senso? Tecnicamente, cioè, che cosa viene ridotto?
La finalità, almeno quella dichiarata, anche nella Relazione che accompagna il disegno di legge, è quella di realizzare obiettivi di maggiore celerità. In realtà, la disciplina risulta contraddittoria rispetto a questo scopo. In base alle valutazioni che ne diamo noi operatori del processo, non solo gli avvocati, ma sicuramente anche i magistrati, il risultato, temiamo, sarà il contrario, perché, ad esempio, dicendolo un po’ tecnicamente, si aumentano da 3 a 4 i gradi di giudizio. Probabilmente tra l’altro questa disciplina passerà con poche modifiche, visto lo scarso numero di emendamenti presentati.
Perché di fatto i gradi di giudizio aumentano, avvocato Giorgi?
Se le norme verranno approvate, il primo grado si articolerà in una prima fase di natura sommaria, in ordine alla quale la disciplina è talmente lacunosa che non è possibile neanche dire con certezza che sia una procedura di tipo sommario-cognitivo (di conoscenza dei fatti e dunque di merito, ndr) o cautelare, al fine di ottenere semplicemente un provvedimento provvisorio d’urgenza.
Se fosse una procedura cautelare, dovrebbe portare a una sospensiva del licenziamento?
Anche questo non è chiaro. La norma parla in realtà di accoglimento o rigetto delle domande di impugnazione del licenziamento. Quindi, se volessimo attribuirgli un significato corrispondente alle espressioni usate, dovrebbe trattarsi di un procedimento di natura cognitiva, che sfocia in una pronuncia potenzialmente definitiva di accertamento della illegittimità del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro, laddove previsto, e di risarcimento del danno. Ma le modalità con cui si svolgono sia la trattazione sia l’attività di istruzione probatoria (verifica della reale sussistenza degli elementi indicati nel ricorso, ndr) sono difficilmente compatibili, almeno sulla base dei principi vigenti del nostro ordinamento, rispetto ad un procedimento cognitivo. Allora è più logico ipotizzare la natura meramente cautelare dell’ordinanza a chiusura della prima fase e che si tratti di un provvedimento anticipatorio di quello finale, oggetto dell’eventuale e successivo giudizio di merito, articolato in tre gradi. Dunque sostanzialmente il procedimento si articolerebbe in 4 gradi.
E dove si risparmia tempo in questi passaggi?
Una garanzia di celerità, che viene offerta da questa disciplina, è data dal fatto che l’udienza deve essere fissata nei 30 giorni dal deposito del ricorso. Però non è scritto nella norma che questo sia un termine perentorio. Quindi i giudici continueranno a considerarlo un termine ordinatorio, come fanno nell’attuale rito per le controversie di lavoro e lo fanno perché devono tenere conto anche delle loro condizioni operative. Dunque da questo punto di vista non cambia assolutamente nulla. L’esigenza di celerità non si garantisce indicando semplicemente che il giudice è tenuto a fissare l’udienza di massima in 30 giorni, se poi non si fanno discendere, rispetto a questo termine, conseguenze di alcuna natura. L’unica altra garanzia di rapidità, diciamo, è la regola che impone di riservare particolari giorni al calendario di udienze per queste controversie, ma questo si poteva fare anche conservando il rito ordinario, che tra l’altro, a differenza del nuovo, dà assolute garanzia di certezza, perché frutto di un’esperienza giurisprudenziale ormai quarantennale, anche con un grande impegno della magistratura in questi anni.
Queste sono dunque le obiezioni fondamentali o ve ne sono altre?
Il disegno di legge ha posto mano in modo molto pesante sui limiti temporali entro i quali presentare i ricorsi contro i licenziamenti. Già con il collegato lavoro della fine del 2010 era stato introdotto un termine di 270 giorni per impugnare il licenziamento. All’epoca si era gridato allo scandalo, ipotizzando che fosse un termine troppo breve rispetto ad alcuni licenziamenti, in particolare quelli economici. Questo è un tipo di licenziamento, cioè per giustificato motivo oggettivo, nel quale spesso la realtà emerge a distanza di tempo, perché il datore di lavoro che, in ipotesi, abbia usato questa motivazione solo per disfarsi di un dipendente scomodo non riassume un altro dipendente il giorno dopo, in linea di massima avrà la prudenza di aspettare qualche mese. Ora questo termine da 270 giorni è stato portato a 180, cioè a 6 mesi. Quindi tutte le impugnative contro i licenziamenti adesso devono essere proposte, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla lettera di contestazione del lavoratore. La rilevanza di questo termine di decadenza sulla concreta tutelabilità dei diritti dei lavoratori, mi dispiace dirlo, non è stato evidenziata né dalle forze politiche né dai sindacati.
E quali effetti avrebbe questo diverso termine, avvocato Giorgi?
Nel momento in cui si introduce un nuovo rito con norme, mi limito a dire, lacunose che creano profili di incertezza di applicabilità obiettivi, sia negli avvocati che devono preparare gli atti, sia nei magistrati che li devono giudicare, il rischio è quello che emerga una serie di questioni di ammissibilità degli stessi ricorsi che porteranno a un enorme numero di pronunce, definite tecnicamente “in rito”, che si limitano cioè a dichiarare l’incompetenza territoriale, l’inammissibilità del ricorso, l’improcedibilità dello stesso, etc.. E allora, questo tipo di pronunce, che è un effetto, ripeto, dell’incertezza, della lacunosità della norma di fatto renderà impossibile la tutelabilità di quelle situazioni. Quando verranno dichiarate quelle pronunce, non ci saranno più i tempi per proporre un nuovo ricorso.
Mi sembra di capire che siamo di fronte a un’emergenza.
Decisamente sì, anche perché ripeto le forze politiche e i sindacati non se ne sono resi conto. Spesso i provvedimenti di legge in Italia non si valutano per i loro contenuti, ma per le dichiarazioni che le forze politiche fanno in ordine all’obiettivo che le norme dovrebbero avere.
Riepilogando il nuovo processo ex art. 18 dello Statuto comprime da un lato i termini per presentare i ricorsi e dall’altro aumenta i gradi di giudizio. E’ così, avvocato Giorgi?
Di fatto il primo grado si articola in una fase sommaria, ma necessaria, e un’altra di cognizione. Già oggi era possibile introdurre un provvedimento di urgenza prima del giudizio di merito, però era una scelta facoltativa, riservata ai soli casi nei quali gli elementi di fatto erano evidenti, che si potevano cioè desumere dagli stessi documenti, quindi era limitata a un numero molto ridotto di situazioni. Con le modifiche apportate dal disegno di legge sul mercato del lavoro invece questa fase è di natura sommaria e obbligatoria e dunque si va ad aggiungere agli altri gradi di giudizio.
E non vi sono segnali di ripensamento?
No. Si sono però levate diverse voci dalla società civile, in particolare dalla nostra Associazione (AGI- Avvocati Giuslavoristi Italiani, ndr): il nostro presidente (Fabio Rusconi, ndr) ha chiesto con una lettera alla Commissione lavoro del Senato lo stralcio delle norme relative al nuovo processo per i licenziamenti. Ma sembra che queste richieste stiano cadendo nel silenzio.
Lei dunque auspica che ci sia uno stralcio per una maggiore riflessione su questo nuovo rito? Assolutamente sì. Io le ho riferito alcuni particolari apparentemente molto tecnici che però sono di grande impatto. Questa normativa di carattere processuale, se cumulata con alcune modifiche di carattere sostanziale, per esempio in materia di motivazione del licenziamento, produce effetti incredibili. Come il fatto che, secondo il testo originario del disegno di legge, il lavoratore al quale sia stato intimato un licenziamento senza motivazione espressa e lo abbia impugnato, può venire a conoscenza dei motivi del licenziamento nel giudizio, per assurdo, solo nel momento in cui comincia l’udienza. Ciò determina un’evidente lesione del diritto di difesa che nel nostro ordinamento non ha ovviamente precedenti. E questo è un altro degli effetti prodotti.
Nelle ultime ore però il governo ha proposto alcune modifiche: 15 emendamenti a firma dei relatori. Cosa ne pensa, avvocato Giorgi?
Da quanto si desume da un primo esame, il governo ha ora indicato un termine minimo per la notifica del ricorso del lavoratore, 25 giorni prima dell’udienza, ed un termine al datore di lavoro, di 5 giorni, per depositare la propria memoria difensiva. A parte che non viene precisato se si tratta di termini perentori, dunque in base al codice civile, se la legge non lo specifica, sono da intendersi ordinatori. Comunque certo 5 giorni sono irrisori per approntare le difese. E’ una soluzione peggiore del male precedente. Dunque il problema è tutt’altro che risolto.
Come spiega questa lacunosità, come dice lei?
Non sono abituato a dare giudizi, ma l’impressione è che questa riforma sia la somma del contributo di ottimi tecnici, professori universitari e giuslavoristi, incaricati dal governo di predisporre ciascuno un pezzetto di riforma, ma non c’è stato nessuno che abbia ricondotto ad unità il contributo di tutti. Quindi il risultato è un pasticcio assoluto e secondo me è anche un disastro dal punto di vista economico, perché non credo che un investitore straniero di fronte a una disciplina così frazionata sia incentivato a venire a investire in occupazione in Italia.